Illegittimo demansionamento del lavoratore (Cassazione civile, sez. lav., dep. 02/12/2022, n.35501).

Illegittimo demansionamento del lavoratore e condanna al datore di lavoro.

La Corte d’Appello di Brescia, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Mantova, ha ridotto alla somma di Euro 5.000,00 la condanna del Comune mantovano a titolo risarcitorio per l’illegittimo demansionamento dalla lavoratrice (responsabile dei servizi finanziari e poi trasferita presso la biblioteca e l’ufficio anagrafe del Comune).

La Corte territoriale ha rilevato che la lavoratrice era stata trasferita alla biblioteca e all’anagrafe ove, al di là della stretta equivalenza formale delle mansioni, non era stata più adibita ad attività di tipo gestionale e direttivo, ma a mansioni inferiori alla categoria di appartenenza, come confermato anche dai testi escussi che parlavano di incombenze elementari legate al posizionamento di libri su scaffali, alla trasmissione di e-mail ai lettori e di volantini da stampare, alla partecipazione a riunioni per decidere i nuovi libri da acquistare ecc..

Tuttavia la medesima Corte ha escluso, in relazione al ridotto arco temporale del demansionamento (17.1.2015/30.6.2016) e al nuovo impiego reperito dalla donna in altro Ente Locale, sempre nel settore finanziario, che vi fosse stata prova di un danno alla professionalità. Per tali ragioni riformava la decisione di primo grado liquidando il solo danno all’immagine professionale e non quello da illegittimo demansionamento.

Il Comune propone ricorso per Cassazione.

Deduce errata attribuzione dell’onere della prova e inerzia colpevole della lavoratrice. Le censure sono in parte inammissibili e in parte infondate.

La Corte territoriale ha ritenuto provato lo svolgimento di mansioni ripetitive ed elementari, come tali non riconducibili alla figura di “specialista in attività culturali”, categoria D, e caratterizzate da “elevate conoscenze pluri-specialistiche” con contenuto gestionale e direttivo e “responsabilità di risultati di importanti processi amministrativi”, ma piuttosto pertinenti al sotto-ordinato profilo C (“contenuto di concetto con responsabilità di risultati relativi a specifici processi”), se non addirittura al profilo B, perché “caratterizzate da buone conoscenze specialistiche ed un grado di esperienza discreto”, dunque inferiori a quella di inquadramento della lavoratrice.

La ricostruzione delle mansioni espletate dalla lavoratrice, in termini di depauperamento se non addirittura di vero e proprio svuotamento di quelle originarie assegnate, non viola il principio dell’onere della prova.

Quando il lavoratore allega un illegittimo demansionamento riconducibile ad un inesatto adempimento dell’obbligo gravante sul datore di lavoro ai sensi dell’art. 2103 c.c., è su quest’ultimo che incombe l’onere di provare l’esatto adempimento del suo obbligo, o attraverso la prova della mancanza in concreto del demansionamento, ovvero attraverso la prova che fosse giustificato dal legittimo esercizio dei poteri imprenditoriali oppure, in base all’art. 1218 c.c., a causa di un’impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile, con regola che ovviamente vale anche ove la questione riguardi il pubblico impiego e sia affrontata con riferimento al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52 (cfr. Cass. n. 22900 del 2022).

Il ragionamento dei Giudici di Appello secondo cui, non essendo emerse dal compendio istruttorio circostanze atte a suffragare il conferimento di compiti confacenti alla categoria di appartenenza, e/o l’esercitabilità in concreto di più qualificanti compiti, doveva dirsi provato il demansionamento conseguente alle specifiche allegazioni sul punto della lavoratrice, è in linea con gli orientamenti giurisprudenziali.

Con il terzo motivo il Comune deduce l’omesso esame di mezzi istruttori e l’erroneo apprezzamento sull’esito della prova:  la Corte di merito avrebbe ignorato che v’erano fatti storici decisivi per il giudizio perché il Comune aveva addotto circostanze che dimostravano l’intenzionalità della condotta auto-limitante della lavoratrice.

Il motivo è inammissibile.

In buona sostanza il Comune si duole che il Giudice abbia ignorato il fatto che, in questioni operative e logistiche, “la lavoratrice poteva svolgere istanze al Comune per ottenere strumenti atti ad operare” (come pc, monitor, arredo e fotocopiatrice), che si era resa inadempiente all’obbligo formativo relativamente a un corso, che era stata “investita della responsabilità dei procedimenti amministrativi con atto di organizzazione prot. n. 691/15”.

Tuttavia, il comune non spiega per quali ragioni le suddette circostanze avrebbero determinato un esito della controversia differente.

Il ricorso principale del Comune viene rigettato.

Il ricorso incidentale della lavoratrice, invece, è fondato.

La stessa deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 10-91 c.p.c. e del D.M. n. 55 del 2014, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, per avere la Corte di merito, nel riformare la decisione di primo grado, parametrato la liquidazione delle spese allo scaglione 1.101/5.200 senza tenere conto del fatto che vi erano state delle richieste disattese, ivi compresa la riconvenzionale del Comune per Euro. 20.000,00 donde, in caso di reiezione di domande, l’esigenza di rapportare il valore della causa al disputatum e non al solo decisum.

La causa, considerati gli importi liquidati in appello in favore della lavoratrice (5 mila Euro), ma anche le ulteriori domande di valore indeterminabile da essa proposte, eppure disattese, e la respinta riconvenzionale del Comune (del valore di 20.000 Euro), si colloca nello scaglione tariffario da 5.200,01 a 26.000,00 Euro, e non nello scaglione tariffario inferiore applicato dai Giudici di appello.

Avv. Emanuela Foligno

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