Tutte le assunzioni pubbliche sono assoggettate all’esito positivo di un periodo di prova e ciò avviene ex lege e non per effetto di un patto inserito nel contratto di lavoro dall’autonomia contrattuale (Cass. n. 21586/2008)

Lo hanno affermato i giudici della Sezione lavoro della Cassazione, con la sentenza n. 32877/2018, statuendo in ordine ad una delle tante vicende di contestazioni di assunzioni pubbliche nel comparto sanitario.

La vicenda

Un dirigente medico era stato licenziato da un’azienda sanitaria dopo esser stato assunto in prova, perché quest’ultima si era conclusa con esito negativo; senonché decideva di proporre azione dinanzi al giudice civile affinché verificasse e dichiarasse l’illegittimità del provvedimento di recesso, nonché la sua reintegrazione sul posto del lavoro e il risarcimento di tutti i danni patiti.

Ma in primo grado, il tribunale competente rigettava la domanda; stesso esito in appello. La Corte territoriale aveva infatti, statuito che l’eventuale illegittimità del recesso intimato per esito negativo della prova non comporta l’applicazione della tutela reale (la reintegrazione), perché il lavoratore può solo chiedere la prosecuzione per il periodo mancante, in caso di inadeguatezza della prova, o al più, il risarcimento del danno.

Deve perciò, escludersi che dall’illegittimità del licenziamento possa derivare la stabile costituzione del rapporto di lavoro contestato.

Ma al di là di queste premesse astratte, la domanda attorea doveva essere rigettata in concreto, posto che la lavoratrice, che era stata assunta con qualifica dirigenziale, era risultata inidonea a ricoprire quegli incarichi e anzi doveva essere ritenuta responsabile delle inefficienze del settore cui era stata preposta.

Il ricorso per Cassazione

Il tema che viene sottoposto al vaglio dei giudici della Cassazione è il seguente:

In caso di recesso illegittimo dal periodo di prova, può dirsi applicabile la tutela reale della reintegrazione sul posto di lavoro?

È quello che ritiene il difensore della ricorrente: “qualora il dipendente pubblico dimostri di aver superato positivamente il periodo di prova, il recesso evidentemente determinato da un motivo illegittimo, per effetto della fictio iuris di cui all’art. 1359 c.c., comporta che la condizione dell’avvenuto superamento sia da ritenersi realizzata con efficacia retroattiva”. Il patto, sarebbe stato perciò, stipulato in violazione dell’art. 2096 c.c. e pertanto, nullo.

Ma è proprio così?

Il giudizio della Cassazione è severo. Il ricorso è infondato perché muove da un’errata ricostruzione del quadro normativo ed invoca principi validi in relazione al rapporto di lavoro privato, non estensibili all’impiego pubblico contrattualizzato.

L’assunzione in prova alle dipendenze delle amministrazioni (di cui all’art. 1 del d.lgs. n. 165/2001), non è mai stata disciplinata dal richiamato art. 2096 c.c., che presuppone il carattere facoltativo e non obbligatorio del patto.

Al contrario, per l’impiego pubblico già il d.P.R. n. 3/1957 aveva previsto, agli artt. 9 e 10, che gli impiegati civili dello Stato dovessero essere necessariamente nominati in prova ed aveva compiutamente disciplinato le modalità della prova stessa, finalizzata anche ad assicurare al dipendente la formazione iniziale.

L’obbligatorietà della prova è stata, poi, ribadita dalla legge quadro sul pubblico impiego n. 93/1983 che, all’art. 20, aveva subordinato “l’assunzione definitiva del dipendente … al superamento di un congruo periodo di prova di uguale durata per le stesse qualifiche, indipendentemente dall’amministrazione di appartenenza”.

A seguito della prima contrattualizzazione con il d.lgs. n. 29/1993 è intervenuto nella materia del reclutamento del personale il d.P.R. n. 487/1994, al quale rimanda l’art. 70, comma 13 d.lgs. 165/2001, che dopo aver riaffermato la necessità della prova, ne detta la disciplina, da un lato imponendo un esperimento da svolgersi nel profilo professionale di qualifica o categoria al quale si riferisce la selezione concorsuale, dall’altro rinviando alla contrattazione collettiva la fissazione della durata, da stabilire proprio in ragione della complessità delle prestazioni professionali richieste.

In materia di personale del comparto sanità, rileva il d.P.R. n. 761/1979 con il quale è stato disciplinato lo stato giuridico dei dipendenti delle unità sanitarie locali, che all’art. 14 stabilisce i termini e le modalità della prova e individuando i soggetti competenti a relazionare sull’attività svolta e ad esprimere il giudizio sull’esito dell’esperimento.

Quest’ultima disposizione è stata poi disapplicata dall’art. 72 del CCNL 5.12.1996 del settore sanità.

Se questo è il quadro normativo, secondo la giurisprudenza di legittimità, tutte le assunzioni alle dipendenti delle pubbliche amministrazioni sono assoggettate all’esito positivo di un periodo di prova e ciò avviene ex lege e non per effetto di un patto inserito nel contratto di lavoro dall’autonomia contrattuale (Cass. n. 21586/2008). Ne consegue che dall’eventuale carenza del regolamento contrattuale, quanto alla prova e alle mansioni in relazione alle quali la stessa dovrà svolgersi, non possono derivare le conseguenze che nel lavoro privato si ricollegano alla nullità del patto e che presuppongono il carattere facoltativo dello stesso.

Senonché la stessa Suprema Corte ha da tempo, evidenziato che nell’impiego pubblico contrattualizzato esiste una scissione, ignota al diritto privato, fra l’acquisto della qualifica di dirigente ed il successivo conferimento delle funzioni dirigenziali (Cass. n. 2233/2007). All’esito del superamento della procedura concorsuale si costituisce il rapporto fondamentale, che è a tempo indeterminato, e sullo stesso si innesta, poi, l’incarico temporaneo in quanto, a seguito della contrattualizzazione, la “qualifica dirigenziale non esprimere una posizione lavorativa inserita nell’ambito di una carriera e caratterizzata dallo svolgimento di determinate mansioni, bensì esclusivamente l’idoneità professionale del dipendete a svolgerle concretamente per effetto del conferimento, a termine, di un incarico dirigenziale” (Cass. n. 8674/2018).

La disciplina della prova dettata dal CCNL 8.6.2000 per la dirigenza non medica del servizio sanitario nazionale tiene conto di detta duplicità di piani e limita, all’art. 14, la necessità dell’esperimento ai “neo assunti nella qualifica di dirigente” ed a coloro che, “già dirigenti sanitari della stessa o altra azienda o ente del comparto, a seguito di pubblico concorso, cambiano area e disciplina di apparenza”.

Ne deriva che il periodo di prova, finalizzato a verificare l’idoneità dell’assunto ad assumere funzioni dirigenziali, precede il formale conferimento dell’incarico e prescinde dall’assegnazione di obiettivi, sicché lo stesso si deve ritenere validamente effettuato ogni qualvolta al neo assunto vengano affidati compititi riconducibili alla qualifica rivestita.

 

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