In tema di responsabilità medica si delinea un duplice ciclo causale: uno relativo all’evento dannoso e l’altro relativo all’impossibilità di adempiere che deve essere provato dal danneggiante

Il Primario del reparto di Psichiatria ricorre in Cassazione (Cass. Civ., sez. III, sentenza n. 25288 del 11 novembre 2020), impugnando la sentenza n. 925/18, dell’11 maggio 2018, della Corte di Appello di Catanzaro, che – accogliendo il gravame esperito avverso la sentenza n. 670/13, del 24 giugno 2013, del Tribunale di Crotone – condannava, in solido, il ricorrente e l’Azienda Sanitaria di Crotone a risarcire i danni patiti dalla paziente, liquidati in euro 186.495,00  in relazione alle autolesioni inflitte all’occhio sinistro mentre era ricoverata presso il servizio psichiatrico diagnosi e cura dell’Ospedale.

Riferisce il ricorrente che la paziente psichiatrica in stato di gravidanza al quinto mese veniva ricoverata presso il servizio psichiatrico diagnosi e cura dell’Ospedale in regime volontario e su consiglio del Medico di guardia, che l’aveva visitata d’urgenza a seguito di richiesta del pronto soccorso dello stesso Ospedale.

Alla gravida veniva diagnosticato “disturbo depressivo con spunti e tematiche deliranti”, il suo stato clinico si aggravava ulteriormente, con la comparsa – il giorno successivo – di sintomatologia psicotica e gesti autolesivi, tanto che il Sindaco di Crotone ordinava alla divisione psichiatrica dell’Ospedale di sottoporre la donna a trattamento sanitario obbligatorio di tipo psichiatrico.

Considerato lo stato di gravidanza risultava pericoloso somministrare alla paziente terapia farmacologica e quindi la stessa veniva posta a regime di contenzione fisica mediante l’applicazione di fasce a fibre acriliche, finalizzate a bloccare mani, piedi e busto, chiuse con bottoni speciali a calamita.

Tuttavia, la paziente sebbene costantemente monitorata e mai abbandonata a sé stessa riusciva a divincolarsi con atto “fulmineo, istantaneo ed assolutamente imprevedibile”, procurandosi gravissime autolesioni all’occhio sinistro, con “sublussazione completa del bulbo ed avulsione traumatica dei muscoli estrinseci”, ovvero perdita completa dell’occhio.

Il Tribunale di primo grado rigettava le domande risarcitorie della donna rilevando che “il danno riportato dalla paziente, attesa l’imprevedibilità dell’azione della stessa, dovesse addebitarsi alla sua esclusiva responsabilità, non potendo ravvisarsi alcun inadempimento o condotta omissiva viceversa imputabile ai sanitari in servizio al momento dell’occorso”.

La paziente impugnava la sentenza e la Corte d’Appello accoglieva integralmente il gravame condannando il Primario di Psichiatria e la As di Crotone.

Il Primario ricorre in Cassazione lamentando errata applicazione dei criteri del nesso di causa tra condotta omissiva e danno ed errato accertamento della condotta esigibile.

Censura, inoltre, la decisione della Corte territoriale nella parte in cui ha ritenuto: “l’inidoneità dei presidi apprestati a garantire la sicurezza della paziente e conseguentemente non correttamente adempiuta la prestazione contrattuale esigibile”, e che “in caso di culpa in vigilando, come del resto in qualsiasi ipotesi di colpa omissiva consistita nel non avere impedito un evento che si era obbligati ad impedire, l’avverarsi stesso dell’evento costituisce in tesi prova dell’esistenza del nesso di causa tra la condotta omissiva ed il danno”.

In particolare, la decisione del Giudice di Appello laddove “ha liquidato erroneamente e in poche battute il nesso di causalità fondandolo sul ragionamento riassunto dall’espressione “post hoc, ergo propter hoc””, contravvenendo alle indicazioni ricavabili dalla giurisprudenza secondo cui, in tema di causalità omissiva, non si può prescindere dal metodo per cui “l’accertamento del nesso di causalità ipotetica passa attraverso l’enunciato “controfattuale” che pone al posto dell’omissione il comportamento alternativo dovuto, onde verificare se la condotta avrebbe evitato il danno lamentato dal danneggiato”.

Invece, la Corte territoriale, dopo avere dato atto dell’adozione dei presidi di contenimento e della impossibilità di realizzare una immobilizzazione assoluta della donna, ha concluso nel senso che i presidi di contenimento non fossero adeguati alla situazione senza chiarire quali misure alternative, anche in relazione alla gravidanza della paziente e al fatto che i contenimenti sono imposti dalla legge come extrema ratio, dovevano essere adottate.

Resiste all’impugnazione del Medico e dell’As, con duplice controricorso la paziente.

Gli Ermellini considerano le doglianze del Medico e della As fondate, in particolare il primo motivo di ricorso del Medico e il secondo motivo di ricorso dell’AS sono ritenuti meritevoli di accoglimento.

Nei giudizi risarcitori riguardanti condotte autolesive di pazienti psichiatrici, si è affermato  che “qualsiasi struttura sanitaria, nel momento stesso in cui accetta il ricovero d’un paziente, stipula un contratto dal quale discendono naturalmente, ai sensi dell’art. 1374 c.c., due obblighi: il primo è quello di apprestare al paziente le cure richieste dalla sua condizione; il secondo è quello di assicurare la protezione delle persone di menomata o mancante autotutela, per le quali detta protezione costituisce la parte essenziale della cura”.

In altri termini, la salvaguardia dell’incolumità del paziente psichiatrico rientra negli obblighi di protezione destinati a integrare in contenuto del contratto di spedalità.

Ne consegue, sotto il profilo probatorio, che il paziente deve provare l’avvenuto inserimento della Struttura e che il danno si sia verificato durante il ricovero, o durante la vigilanza del personale, mentre spetta alla Struttura dimostrare di avere adempiuto con diligenza idonea a impedire il fatto.

Nella medesima prospettiva la giurisprudenza ha affermato che ricorrendo inidonea vigilanza si concreta una culpa in vigilando consistita nel non avere impedito l’evento. L’avverarsi stesso dell’evento costituisce la prova dell’esistenza del nesso di causa tra la condotta omissiva e il danno e la Struttura, per andare esente da responsabilità, deve dimostrare di avere tenuto una condotta diligente e una adeguata sorveglianza del paziente.

Questi principi, affermano gli Ermellini, sono pacifici anche considerando che in tema di responsabilità medica si delinea un duplice ciclo causale: uno relativo all’evento dannoso che deve essere provato dal danneggiato, e l’altro relativo all’impossibilità di adempiere che deve essere provato dal danneggiante.

Conseguentemente, le censure svolte dai ricorrenti sulla errata verifica del nesso causale posta in essere dalla Corte territoriale non sono fondate.

Difatti, nella “ricostruzione del nesso causale, ciò che muta sostanzialmente tra il processo penale e quello civile è la regola probatoria, in quanto nel primo vige la regola della prova “oltre il ragionevole dubbio”, mentre nel secondo vige la regola della preponderanza dell’evidenza o “del più probabile che non”, di cui vengono ribadite le modalità di applicazione.

La regola della preponderanza dell’evidenza (più probabile che non) è la combinazione di due regole: quella del più probabile che non e quella della prevalenza relativa della probabilità.

In altri termini, rispetto a ogni enunciato si deve considerare l’eventualità che esso possa essere vero o falso, ossia che sullo stesso fatto via siano un’ipotesi positiva e una complementare negativa. Tra queste due ipotesi alternative il Giudice deve scegliere in base alle prove disponibili quella che ha un grado di conferma logica superiore all’altra.

La decisione impugnata ha fatto, pertanto, corretta applicazione del principio:  “in qualsiasi ipotesi di colpa omissiva consistita nel non avere impedito un evento che si era obbligati ad impedire, l’avverarsi stesso dell’evento costituisce in tesi prova dell’esistenza del nesso di causa tra la condotta omissiva ed il danno”, potendo la struttura sanitaria esonerarsi da responsabilità “dimostrando di avere tenuto una condotta diligente”, consistita “in una adeguata sorveglianza del degente”.

Ciò posto, riguardo il gesto imprevedibile compiuto dalla donna, il rilievo non è quello dell’applicazione degli artt. 40 e 41 c.p., bensì quello della causa imprevedibile e inevitabile che ha reso impossibile la sorveglianza della paziente.

Sotto questo profilo emerge la criticità della decisione d’Appello e la fondatezza dei relativi motivi di impugnazione del Medico e della Struttura.

La Corte territoriale erroneamente ha unificato i due cicli nei quali si articola il giudizio sulla responsabilità sanitaria.

Infatti, una volta ritenuto che il nesso di causalità materiale fosse provato, non si è interrogata sul diverso comportamento che, anche alla luce delle peculiari condizioni del caso concreto si sarebbe potuto – o meglio, dovuto esigere dalla Struttura.

In conclusione, la Suprema Corte, cassa con rinvio in diversa composizione la sentenza impugnata per il rinnovo del giudizio sulla responsabilità del Primario di Psichiatria e dell’Azienda sanitaria di Crotone ove dovranno essere distinti sul piano della morfologia i due cicli causali in cui si articola il giudizio sulla responsabilità contrattuale.

La decisione commentata è da considerarsi impeccabile sotto i profili di chiarezza e logicità argomentativa.

Di particolare pregio la disamina sul nesso causale e sulle modalità di applicazione della prevalenza relativa della probabilità e del più probabile che non.

Avv. Emanuela Foligno

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