Va assolto, in carenza del rapporto di causalità tra condotta ed evento lesivo, con la formula perché “il fatto non sussiste”, invece che con quella “perché il fatto non costituisce reato”, il medico dentista al quale era stata originariamente contestata la condotta colposa , consistita nella violazione dei tradizionali parametri della colpa generica poiché, istallando alla paziente numerose protesi dentali a base di nichel,  causava alla medesima una dermatite allergica che le procurava lesioni gravi.
È questo quanto emerge, in estrema sintesi, dalla lettura della sentenza della Cassazione Penale 28/04/2016 n° 17656, Presidente  Patrizia Piccialli, Relatore Marco Dell’Utri.
La vicenda approdava allo scrutinio della Corte di Cassazione, su impugnazione della parte civile, ossia la paziente lesa dal comportamento asseritamente negligente, imprudente ed imperito del medico, nonché su impugnazione di quest’ultimo che criticava, per l’appunto, la formula adottata dalla Corte Territoriale nella pronuncia di assoluzione.
La sentenza della Cassazione Penale in commento, interviene per la prima volta, a quanto consta, in una vicenda caratterizzata dalla presenza di una patologia insidiosa, la MCS (Sensibilità Clinica Multipla) o allergia, che farebbe parte di quelle malattie c.d. della “vita di oggi” e che si contrae a contatto con l’ambiente in cui viviamo, per l’appunto, o con materiali quali e, nella specie, il nichel,   presente nelle protesi dentarie   installate  sulla persona danneggiata.
La responsabilità del medico dentista era stata affermata, nel giudizio di merito, sulla base della riscontrata colpa generica, espressione con cui si allude, come è noto, a quel comportamento della persona imputata che si sostanzia nella negligenza, imprudenza ed imperizia.
La prima si fa consistere, sinteticamente, in una disattenzione o trascuratezza, o mancanza di sollecitudine, od anche in un mancato adeguamento del comportamento a quelle regole sociali che stabiliscono le modalità di svolgimento di quel tipo di azione: in una parola si tratta della superficialità del comportamento di colui che disattende o dimentica le elementari norme della professione.
In ambito sanitario il comportamento negligente è quello meno scusabile, tant’è che in tali fattispecie il medico è chiamato a rispondere anche in caso di colpa lieve.
L’imprudenza consiste, invece, in un agire in modo inopportuno o intempestivo.
Si qualifica come imperizia, infine, una insufficiente preparazione tecnico-scientifica, ovvero il difetto nelle primarie e basilari abilità che è legittimo pretendere siano possedute da un determinato professionista nel suo specifico ambito. In altro senso, la imperizia discende dalla mancata conoscenza della problematica tecnica che il medico è chiamato di volta in volta a risolvere, che può derivare da difetto di cultura o di tecnica, da ignoranza riferibile a difetto di preparazione, di aggiornamento, di esperienza.
La giurisprudenza penale, a seguito della c.d. legge Balduzzi (189/92) ritiene di applicare il principio secondo cui culpa levis sine imperitia non excusat, ragione per cui l’art. 3 di detta legge, laddove prescrive che “l’esercente la professione sanitaria, che nello svolgimento delle proprie attività si attiene alle linee guida e buone tecniche accreditate dalla Comunità scientifica, non risponde penalmente per colpa lieve” opererebbe solo con riguardo alle ipotesi di imperizia e non anche a quelle di imprudenza e, come già visto, di negligenza (v. ex multis Cass. Pen. Sez. VI 23/04/2015 n° 16944 – la quale ha precisato come le suddette linee guida contengano solo regole di perizia –aderendo all’indirizzo già espresso da Cass. Pen. Sez. IV 11/03/2013 n° 11493, 22/11/2013 n° 46753; 06/03/2014 n° 10929 ed altre).
Mette conto di rilevare, purtuttavia, che più di recente la S.C. ha offerto una certa apertura (v. Cass. Sez. IV 06/06/2016 n° 23283) affermando il principio che “la limitazione di responsabilità, in caso di colpa lieve, può operare (occorre però sempre esaminare il caso concreto) per le condotte professionali conformi alle linee guida ed alle buone pratiche, anche in caso di errori che siano connotati da profili di colpa generica diversi dalla imperizia.
Nell’ambito della colpa generica, è configurabile, invece. quella grave laddove la condotta dell’agente è connotata di una straordinaria ed inescusabile imprudenza, omettendo di osservare anche quel quadro minimo ed elementare di diligenza che tutti, in quell’ambito, osservano ed avrebbero osservato. In sintesi si concreta nell’atteggiamento psicologico  di colui che agisce in totale difformità, nei metodi e nella tecnica, rispetto alle regole consolidate scientificamente ed accettate dalla Comunità scientifica, che costituiscono necessario corredo alla pratica del professionista.
È bene ricordare che la recente legge (c.d. Galli) 08/03/2017 n° 24 (in G.U. 17/03/2017) ha apportato una vera e propria rivoluzione in materia di responsabilità del medico e della struttura sanitaria, prevedendo – con riguardo al profilo penalistico che qui interessa e recependo, in un certo senso le indicazioni nomofilattiche offerte dalla Corte Regolatrice, vigente la legge Balduzzi – l’abrogazione dell’art. 3 di detta legge ed inserendo, nel Codice Penale, il nuovo art. 590 sexies in base al quale il sanitario, che si è comportato in modo conforme alle linee guida (per cui l’art. 5 della legge Galli stabilisce che un Decreto del Ministero della Salute dovrà fornire una elencazione completa delle buone pratiche e di dette linee guida, da inserire poi nel SNLG), non è più sottoposto a sanzioni penali per colpa lieve ma viene punito solo per colpa grave.
Ed, invero, l’art. 590 sexies c.p. ( rubricato “Responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario”) statuisce: co. 1: “se i fatti di cui agli artt. 589 e 590 sono commessi nell’esercizio della professione sanitaria, si applicano le pene previste salvo quanto disposto dal 2° comma”; co. 2: “qualora l’evento si è verificato a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida, come definite e pubblicate ai sensi di legge, ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-sanitarie, sempreché le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate al caso concreto”.
Riteniamo che su questo ultimo inciso la giurisprudenza avrà molto da fare per definire il criterio di adeguatezza alle specificità del caso concreto.
Comunque, è chiaro che non si distingue più  tra colpa lieve e colpa grave e la punibilità sarà esclusa solo se l’evento si sia verificato a causa di imperizia (e non di imprudenza o negligenza), sempreché siano rispettate le suddette linee guida.
La legge Galli si occupa anche di definire la colpa grave laddove all’art. 6 si afferma essere esclusa “quando, salvo le rilevanti specificità del caso concreto, sono rispettate le buone pratiche clinico-assistenziali e le raccomandazioni previste dalle linee guida, come definite e pubblicate ai sensi di legge”.
Va detto, per concludere sul punto, che la inosservanza, invece, di regole cautelari derivanti da norme giuridiche (leggi, regolamenti, ordini e discipline) configura la c.d. colpa specifica.
Abbiamo voluto richiamare, brevemente, tali concetti perché essi esprimono, per così dire, “lo stato dell’arte” in materia di responsabilità penale del sanitario.
La vicenda dell’Odontoiatra, nella fattispecie esaminata dalla Cassazione nella sentenza in commento, ci racconta di una assoluzione in cui la Corte Territoriale aveva dato rilievo, nell’adottare la formula “perché il fatto non costituisce reato”, alla carenza dell’elemento soggettivo (la condotta del medico), pur essendo emersa incertezza in merito alla sussistenza del rapporto di causalità tra condotta ed evento lesivo, da intendersi come quel rapporto di dipendenza che deve sussistere tra l’azione del reo ed il danno o il pericolo derivante dalla  stessa. Rapporto che nella responsabilità  de qua è particolarmente stringente laddove si consideri la posizione del medito nel contesto sociale in cui viviamo. Quest’ultimo, infatti, nell’esercizio della propria attività, riveste una posizione di obbligo che rende doverose determinate azioni, a tutela della salute del paziente, espressione del principio di solidarietà,  presidiato costituzionalmente.
Nel caso del dentista, nella fattispecie di cui alla sentenza in commento,  durante il processo non era emersa chiaramente che il professionista avesse installato la protesi di materiale nichel. Di conseguenza l’evento lesivo subito dalla paziente non avrebbe potuto essere ricondotto al comportamento del professionista; considerazione avallata vieppiù dalla considerazione che l’allergia al nichel, dedotta dalla danneggiata, avrebbe potuto dipendere  da fattori esterni come altra patologia (MCS Sensibilità Clinica Multipla) capaci, nel caso concreto, di offrire spiegazioni causali alternative alla responsabilità del medico.  Il quale, dunque, veniva assolto,  con la formula  “completa” del “fatto non sussiste”, certamente più favorevole in quanto in grado di incidere (a differenza della formula “perché il fatto non costituisce reato”),  con un forza di giudicato tale da precludere ogni azione risarcitoria, astrattamente ipotizzabile, attraverso uno specifico giudizio civile, come più volte affermato dalla S.C. (v., tra le tante, da ultimo Cass. Civile 11/03/2016 n° 4764 e Cass. Penale 13/01/2015 n° 285). Il che non è cosa di poco conto!
 

Avv. Antonio Arseni

Foro di Civitavecchia

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