Il datore di lavoro è tenuto a fornire la prova dell’inesistenza della discriminazione solo dopo che il lavoratore abbia fornito al giudice elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, relativi ai comportamenti discriminatori lamentati

La vicenda

Una lavoratrice aveva adito il giudice del lavoro, denunziando la discriminazione basata sul sesso e sullo status di madre di figlio minore realizzata in suo danno attraverso la mancata stabilizzazione del rapporto di lavoro da parte della società – con la quale aveva sottoscritto nel 2011 un contratto di apprendistato professionalizzante della durata di 36 mesi – a fronte dell’assunzione a tempo indeterminato di colleghi di sesso maschile che avevano stipulato nello stesso giorno il medesimo contratto di apprendistato.

La domanda, accolta in primo grado veniva respinta in appello. In particolare, la Corte di appello di Catanzaro aveva ritenuto che la lavoratrice non avesse fornito un quadro probatorio connotato da precisione e concordanza in ordine alla denunziata discriminazione, in relazione ad entrambi i profili denunziati, di talchè non vi era spazio per la verifica D.Lgs. n. 198 del 2006, ex art. 40, dell’assolvimento da parte della società datrice dell’onere probatorio inteso alla dimostrazione della insussistenza della denunziata discriminazione.

La vicenda è così giunta in Cassazione; ma il ricorso è stato respinto (Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, sentenza n. 11530/2020).

In ordine ai profili di discriminazione, riferiti sia al sesso sia alla condizione di madre tout court, la Corte di merito, avuto riguardo al periodo temporale di riferimento per come sviluppatosi in corso di causa, e cioè al quadrimestre settembre/dicembre 2011, aveva premesso che in detto arco temporale la società datrice di lavoro aveva assunto 20 apprendisti, 13 uomini e 7 donne e che, al netto delle dimissioni in corso di rapporto e di un licenziamento per giusta causa, l’azienda aveva stabilizzato cinque uomini e a tre aveva comunicato il recesso; aveva inoltre stabilizzato due donne e per tre aveva preferito non convertire a tempo indeterminato il rapporto lavorativo.

Per i giudici dell’appello, quindi, il fatto che le stabilizzazioni, così come le mancate stabilizzazioni avevano riguardato sia uomini che donne minava in radice la originaria doglianza di discriminazione legata al sesso.

Quanto alla discriminazione fondata sulla maternità, la circostanza che nel quadrimestre settembre/dicembre 2011 le sole due lavoratrici stabilizzate “sembravano” non essere madri è stata ritenuta dato insufficiente ad integrare “le precise e concordanti presunzioni idonee a sorreggere l’assunto di una discriminazione fondata sulla maternità”; ciò tanto più in presenza di un dato pacifico costituito dal fatto che gli assunti nel quadrimestre di riferimento, ad eccezione della ricorrente, non erano genitori.

L’onere della prova in materia di discriminazione sul lavoro

Ebbene, nel caso in esame, la ricorrente aveva denunciato la sentenza impugnata per essere in contrasto con il regime probatorio delineato dal D.Lgs. n. 198 del 2006, art. 40, ed invece essa, come osservato dai giudici della Suprema Corte, risultava del tutto coerente con tale previsione la quale non stabilisce un’inversione dell’onere probatorio, ma solo un’attenuazione del regime probatorio ordinario, prevedendo a carico del soggetto convenuto (il datore di lavoro), in linea con quanto disposto dall’art. 19 della Direttiva CE n. 2006/54 (come interpretato da Corte di Giustizia Ue 21 luglio 2011, C-104/10), l’onere di fornire la prova dell’inesistenza della discriminazione, ma ciò solo dopo che il ricorrente abbia fornito al giudice elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, relativi ai comportamenti discriminatori lamentati, purchè idonei a fondare, in termini precisi (ossia determinati nella loro realtà storica) e concordanti (ossia fondati su una pluralità di fatti noti convergenti nella dimostrazione del fatto ignoto), anche se non gravi, la presunzione dell’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori in ragione del sesso (Cass. n. 14206 del 2013) o, come nel caso di specie, in ragione dello stato di maternità.

Ed invero, nella sentenza impugnata l’esclusione di un onere probatorio a carico della parte datoriale scaturisce dal rilievo del mancato assolvimento da parte della lavoratrice dell’onere su di essa gravante non avendo la lavoratrice offerto, neppure sul piano statistico, elementi precisi e concordanti, significativi della denunziata discriminazione.

La decisione

Insomma le critiche della ricorrente sono state ritenute deboli e inidonee a scalfire l’impianto motivazione della sentenza impugnata che era pervenuta ad escludere la denunziata discriminazione, in relazione ad entrambi i profili, sulla base di un complesso accertamento di fatto, ponendo in relazione i dati acquisiti secondo una linea argomentativa logica e congrua. Per queste ragioni la Corte ha rigettato in via definitiva il ricorso.

Avv. Sabrina Caporale

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