Accolto il ricorso di un uomo che chiedeva il risarcimento dei danni subiti per la mancata rimozione di un moncone della vite impiantata durante un intervento di riduzione delle frattura della tibia

Aveva evocato in giudizio l’Azienda ospedaliera deducendo di essere rimasto coinvolto in un sinistro stradale in occasione del quale aveva riportato una frattura della gamba sinistra e il 9 giugno 2005 era stato sottoposto in ospedale ad un intervento chirurgico di riduzione della frattura della tibia e della fibula; il 21 giugno 2006 aveva subito un successivo intervento di rimozione dei mezzi di sintesi. L’uomo aggiungeva che, nel periodo successivo, aveva accusato forti dolori alla gamba sinistra per cui, rivoltosi ad uno specialista, era stato sottoposto il 4 giugno 2007 ad un terzo intervento, presso una Casa di cura privata, per la rimozione del chiodo, con il moncone della vite precedentemente non rimossa. Sulla base di tali premesse, ritenuta sussistente la colpa grave dei sanitari del nosocomio, chiedeva il risarcimento di tutti danni subiti, temporanei, permanenti, patrimoniali, non patrimoniali, morali, biologici esistenziali, influenti sulla sfera individuale e sulle normali attività quotidiane, sulla capacità lavorativa specifica e generica.

Il Tribunale rigettava la domanda, ritenendo insussistente la prova della ricostruzione dei fatti, avendo l’attore indicato i mezzi di prova senza individuare il nominativo dei testimoni, entro il termine assegnato e ritenendo insufficiente la documentazione medica depositata; la Corte d’Appello aveva rigettato l’impugnazione ritenendo tempestiva la produzione degli originali in sede di gravame, ma rilevando la mancanza di prova dei fatti dedotti a fondamento della responsabilità.

Nel rivolgersi alla Suprema Corte di Cassazione il ricorrente deduceva che il giudice del gravame avrebbe dovuto ammettere la richiesta di consulenza tecnica d’ufficio poiché, ai sensi dell’articolo 115 c.p.c., avrebbe potuto porre a fondamento della decisione le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza, attraverso l’applicazione delle presunzioni legali; nel caso di specie, la consulenza medica avrebbe natura percipiente, essendo diretta dimostrare l’accadimento o meno di un fatto, la cui prova non può essere fornita in altro modo.

L’attore eccepiva, poi, la nullità del procedimento e della sentenza per l’omesso esame di un fatto storico rappresentato dall’accertamento delle sue condizioni di salute in epoca successiva ai primi due interventi subiti in ospedale, dal quale emergerebbero gli esiti di una frattura della gamba sinistra, trattata in sede con inserimento di un chiodo endomidollare; lamentava, inoltre la nullità del procedimento e della sentenza ai sensi dell’articolo 112 c.p.c. per vizio di ultrapetizione in relazione all’accertamento delle sue condizioni di salute a seguito dei primi due interventi chirurgici (il giudice di appello, travalicando i limiti propri della pronunzia richiesta in appello, non si sarebbe limitato a valutare l’attendibilità dei documenti, ma avrebbe pronunziato sulla tipologia dell’ulteriore intervento chirurgico espletato presso la casa di cura per la rimozione del chiodo con il moncone della vite metallica non rimossa nel precedente intervento, qualificandolo come “intervento di completamento”); infine contestava l’omessa motivazione o la motivazione apparente o manifestamente incoerente, illogica e contraddittoria riguardo alla decisione di non disporre consulenza medico-legale.

Gli Ermellini, con l’ordinanza n. 26907/2020, hanno ritenuto fondati i motivi del ricorso.

La Cassazione ha richiamato l’orientamento espresso dalla giurisprudenza di legittimità secondo cui, sia in tema di responsabilità contrattuale sia in tema di responsabilità extracontrattuale, sussiste un duplice nesso di causalità, materiale (tra condotta ed evento dannoso) e giuridica (tra evento dannoso e danno). In entrambe le ipotesi di responsabilità il danneggiato deve provare il nesso di causalità materiale tra condotta ed evento dannoso (Cass. nn. 28991 e 28992 del 2019, entrambe pubblicate 1’11-11-2019); ma la prova del nesso causale materiale tra condotta ed evento dannoso può essere fornita dal paziente, quale creditore, anche attraverso presunzioni; siffatto possibile ricorso alla prova presuntiva è in grado di attenuare la condizione di maggiore difficoltà probatoria in cui normalmente versa il creditore della prestazione professionale medica rispetto al creditore di qualunque altra prestazione; la giurisprudenza ha sempre rilevato siffatta difficoltà, agevolando il ricorso alla prova presuntiva e affermando che, anche in relazione alla individuazione del nesso eziologico fra la condotta del medico e le conseguenze dannose subite dal paziente, “la difettosa tenuta della cartella clinica da parte dei sanitari non può pregiudicare sul piano probatorio il paziente, cui anzi, in ossequio al principio di vicinanza della prova, è dato ricorrere a presunzioni se sia impossibile la prova diretta a causa del comportamento della parte contro la quale doveva dimostrarsi il fatto invocato”.

Con specifico riferimento alla questione in oggetto, i Giudici del Palazzaccio hanno ribadito che nelle obbligazioni di “facere professionale”, a differenza che nelle altre obbligazioni, la causalità materiale (e cioè il nesso tra condotta ed evento) non è assorbita dall’inadempimento; l’aggravamento della situazione patologica o l’insorgenza di nuove malattie, così come la perdita della causa nel caso dell’avvocato, possono non dipendere dalla violazione delle leges artis, ed avere invece una diversa eziologia; è onere, quindi, del creditore (nel caso di specie, il paziente danneggiato) provare, anche attraverso presunzioni, la sussistenza del nesso causale tra inadempimento (condotta del sanitario in violazione delle regole di diligenza) ed evento dannoso (aggravamento della situazione patologica o insorgenza di nuova malattia, cioè lesione della salute); è quindi onere del detto creditore provare il nesso di causalità materiale, in quanto detto nesso (ove venga allegato l’evento dannoso in termini di aggravamento della patologia preesistente o di insorgenza della nuova malattia) è elemento costitutivo della fattispecie dedotta in giudizio; il creditore cioè deve allegare l’inadempimento (e cioè la negligenza del sanitario ), ma deve provare sia l’evento dannoso (e le conseguenze che ne sono derivate; c.d. causalità giuridica) sia il nesso causale tra condotta del sanitario nella sua materialità (e cioè a prescindere dalla negligenza) ed evento dannoso; una volta che il creditore (paziente) abbia soddisfatto detti oneri, è successivo onere del debitore (sanitario o struttura) provare o di avere esattamente adempiuto o che l’inadempimento sia dipeso da causa a lui non imputabile, e cioè o di avere svolto l’attività professionale con la diligenza richiesta, oppure che sia intervenuta una causa esterna, imprevedibile o inevitabile (che abbia reso impossibile il rispetto delle leges artis); di conseguenza, se resta ignota la causa dell’evento dannoso (e cioè se il creditore non riesce a provare, neanche attraverso presunzioni, che l’evento dannoso -l’aggravamento della patologia preesistente o l’insorgenza di una nuova patologia- sia in nesso causale con la condotta del sanitario), le conseguenze sfavorevoli ai fini del giudizio ricadono sul creditore medesimo, che ne aveva il relativo onere; se, invece, resta ignota la causa di impossibilità sopravvenuta della diligenza professionale (ovvero, come detto, resta indimostrata l’imprevedibilità o l’inevitabilità di tale causa di impossibilità), le conseguenze sfavorevoli ricadono sul debitore.

Nel caso in esame la Corte d’appello non aveva fatto corretta applicazione di tali principi. Infatti, con riferimento al profilo della prova presuntiva del nesso causale, la stessa Corte territoriale rilevava che, se è vero che la documentazione prodotta dal danneggiato non consente di dimostrare direttamente che l’intervento eseguito presso la Casa di cura Villa Serena era diretto a rimuovere una parte di vite metallica rimasta per errore nella gamba, la documentazione esaminata consente di fondare una prova per presunzioni; infatti, come si legge in sentenza, il certificato medico (con data precedente al terzo intervento, ma successiva al secondo) nel riferirsi al secondo intervento eseguito presso il nosocomio, attestava la esistenza di “esiti frattura gamba sinistra trattata in altra sede con chiodo endomidollare”; nella cartella clinica dell’anestesista e nella descrizione dell’intervento parlava di “rimozione di chiodo endomidollare con il moncone della vite”. Rispetto a tale descrizione di quanto avvenuto in occasione del secondo intervento, eseguito presso l’ospedale (esiti di frattura trattata in occasione del primo intervento e rimozione, sia del chiodo, che del moncone della vite), la sentenza faceva riferimento all’attestazione della Casa di cura (redatta, quindi, in occasione del terzo intervento) ove si parlava di “rimozione dei mezzi di sintesi a seguito di frattura di gamba sinistra”; da tali elementi emergeva che la Corte territoriale riferiva che il terzo intervento si era reso necessario per la “rimozione dei mezzi di sintesi”, evidentemente inseriti a seguito della frattura della gamba sinistra, in occasione di un precedente intervento, eseguito presso l’ospedale; pertanto, in occasione della terza operazione, avvenuta presso la struttura privata, si certificava che la finalità della stessa fosse quella di rimozione dei “mezzi di sintesi”, consentendo di valutare la rilevanza di tale profilo ai fini della prova presuntiva.

La redazione giuridica

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