Infortunio mortale e diritti del convivente more uxorio (Cassazione civile sez. III, 20/04/2023, n.10723).

Il convivente more uxorio del lavoratore infortunato e deceduto chiama in giudizio il datore di lavoro per il ristoro dei danni.

Interveniva nel giudizio l’INAIL al fine di ottenere la condanna della società convenuta al rimborso dell’intero ammontare delle prestazioni erogate agli aventi diritto per l’infortunio mortale.

La Corte di Appello di Perugia, con sentenza non definitiva n. 463/18, dichiarava la responsabilità della società datrice di lavoro per aver causato la morte del suo dipendente. Con separata ordinanza, rimessa la causa sul ruolo al fine di decidere in ordine alle domande di risarcimento del danno, disponeva CTU  e, all’esito, con sentenza definitiva n. 103/2020, condannava il datore di lavoro a pagare in favore dell’Inail l’importo di Euro 293.870,47, oltre rivalutazione ed interessi e a pagare in favore della convivente del lavoratore deceduto la somma di Euro 9.181,17, oltre al danno da perdita del rapporto parentale.

Il datore di lavoro, soccombente per l’infortunio mortale, ricorre in Cassazione. Per quanto qui di interesse, vengono analizzate le censure inerenti la posizione di regresso dell’INAIL. Secondo la tesi del ricorrente la Corte territoriale avrebbe erroneamente respinto l’eccezione di improcedibilità della domanda di regresso proposta dall’Inail davanti al Giudice in sede ordinaria. L’azione di regresso, secondo la tesi del datore di lavoro, cadrebbe nella competenza funzionale ed inderogabile del Giudice del lavoro, laddove la decisione impugnata ha erroneamente affermato che “l’eccezione riguardante il rito utilizzato è stata svolta dalla società datrice soltanto nel giudizio di appello senza che, poi, in sede di conclusioni sia stata svolta alcuna eccezione ed avanzata alcuna richiesta…”.

La censura viene considerata infondata. Con l’azione di regresso T.U. n. 1124 del 1965,  l’Inail fa valere in giudizio un proprio diritto che origina dal rapporto assicurativo, così che la qualificazione della domanda come azione di surroga determina la competenza del Giudice civile, mentre l’inquadramento della stessa entro l’azione di regresso radica la competenza del Giudice del lavoro (Cass., sez. 6 – L, 12/11/2019, n. 29219).

Nel caso in esame sono state proposte domande connesse assoggettate a riti diversi e, precisamente, azione di risarcimento avanzata dalla convivente, assoggettata al rito ordinario, da un lato, ed azione di regresso dell’Inail, assoggettata al rito del lavoro, dall’altra, sicché il rito del lavoro avrebbe dovuto prevalere su quello ordinario. L’eccezione concernente il rito da applicare, in ragione della connessione, in quanto pacificamente sollevata solo nel giudizio di appello, è stata tardivamente introdotta.

Ad ogni modo, non si può discorrere di erroneità del rito adottato, poiché l’omesso mutamento del rito (da quello speciale del lavoro a quello ordinario e viceversa) non determina l’inesistenza o la nullità della sentenza, ma assume rilevanza invalidante soltanto se la parte che se ne dolga in sede di impugnazione, indichi lo specifico pregiudizio processuale concretamente derivatole dalla mancata adozione del rito diverso, quali una precisa e apprezzabile lesione del diritto di difesa, del contraddittorio e, in generale, delle prerogative processuali protette della parte (Cass., sez. 3, 05/07/2019, n. 18048; Cass., sez. 3, 27/01/2015, n. 1448; Cass. sez. 3, 18/07/2008, n. 19942).

Ebbene, specifiche censure non sono state proposte e, comunque, l’azione di regresso di cui all’art. 11 si prescrive in ogni caso nel termine di tre anni dal giorno nel quale la sentenza penale è divenuta irrevocabile.

Conclusivamente, il ricorso proposto nei confronti dell’Inail viene rigettato.

Avv. Emanuela Foligno

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