Insorgenza di complicazioni nella responsabilità medica (Tribunale Milano, Sentenza N. 1838 pubbl. il 09/03/2023).

Le due ipotesi alternative in tema di responsabilità medica per insorgenza di complicazioni vengono affrontate nella decisione qui a commento.

1) o il Medico dimostra di aver tenuto una condotta conforme alle leges artis, ed in tal caso, nessuna responsabilità potrà essergli addebitata, ed alcuna rilevanza potrà avere il fatto che il danno patito dal paziente rientri, o meno, nella categoria delle complicanze;

2) o, invece, il Medico non riesce a fornire tale prova ed allora non rileverà la circostanza che il danno sia imprevedibile ed inevitabile, in quanto ciò che conta è la prevedibilità ed evitabilità nel caso concreto.

In sintesi:  per superare la presunzione di cui all’art. 1218 c.c. non è sufficiente dimostrare che il danno patito dal paziente rappresenti una complicanza rilevabile nella statistica sanitaria, posto che la complicanza non rileva sul piano giuridico, nel cui ambito il peggioramento delle condizioni del paziente può solo ricondursi ad un fatto o prevedibile ed evitabile e dunque ascrivibile a colpa del medico, ovvero non prevedibile o non evitabile, così da integrare gli estremi della causa non imputabile.

La vicenda trae origine dalla citazione a giudizio dell’Istituto Oncologico attuata per vederne accertata la responsabilità contrattuale ed extracontrattuale per l’erroneo e inadeguato trattamento assistenziale e chirurgico prestato.

A seguito di approfondimenti diagnostici per algie pelviche, veniva disposto il ricovero della paziente e la programmazione di un intervento per la presenza di una massa ovarica destra patologica e di una massa ovarica sinistra sospetta, oltre a linfonodo otturatorio destro dubbio. Nel corso dell’esecuzione dell’intervento chirurgico si verificava una emorragia endoaddominale che comportava, il giorno seguente, un nuovo intervento di drenaggio emoperitoneo e la toilette della cavità addominale. Inoltre, durante il primo intervento chirurgico non era stata riconosciuta alcuna patologia tumorale.

Secondo la tesi della paziente sarebbe configurabile una condotta inadempiente per l’inadeguatezza del primo intervento e per la erroneità della diagnosi, fondata su dati clinici e strumentali poco significativi, sia per la inadeguata esecuzione del primo intervento, che aveva comportato gravi conseguenze dannose e l’esecuzione di due laparotomie evitabili.

Dalla relazione peritale redatta dai CTU emerge:  

– nel periodo immediatamente successivo, dopo l’esito delle analisi, veniva eseguita una nuova ecografia pelvica e veniva prescritto dallo specialista ginecologo la esecuzione di una TAC pelvi. Veniva quindi effettuata il 12 novembre 2013 la Tac dell’addome inferiore senza e con mezzo di contrasto, il cui esito aveva indotto i sanitari a richiedere un completamento diagnostico mediante esame RM con mezzo di contrasto;

– la attrice si era quindi rivolta all’Istituto dove aveva eseguito il 13 novembre 2013 TC torace ed una TC addomino pelvica; il 21 novembre una ecografia con sonda transvaginale. In data 26 novembre la paziente veniva quindi ricoverata presso l’istituto con diagnosi di ‘K ovaio’ per essere sottoposta ad intervento di laparotomia esplorativa, che veniva eseguito nella medesima giornata.

-Poiché emergeva da subito una discrepanza tra i reperti della TAC e della RNM eseguiti in fase preoperatoria e quanto riscontrato all’apertura della parete addominale, i sanitari procedevano ad una ecografia bilaterale intraoperatoria delle tube bilateralmente, ad eseguire biopsie mirate ed a random, che davano esito negativo per malignità e consentivano di rilevare soltanto presenza di significativa risposta infiammatoria;

– nella descrizione dell’intervento veniva riportato il verificarsi di una perdita ematica irrilevante. Tale indicazione non è stata ritenuta congrua dai Consulenti, posto che lo stesso verbale attestava l’esecuzione di emotrasfusioni per due unità e che nella medesima giornata l’ecografia transvaginale eseguita aveva rilevato la presenza nella fossa iliaca destra di una formazione a contenuto disomogeneo delle dimensioni di 6 cm da riferirsi in prima ipotesi a raccolta ematica.

Ed ancora, i CTU hanno evidenziato “l’assenza di una condizione di urgenza clinica tale da giustificare un approccio chirurgico invasivo, dovendosi considerare l’elevata percentuale di errori della RMN in campo oncologico (fino al 60%), come pure della TAC con e senza mezzo di contrasto (fino al 50%), nonché la circostanza della non univoca interpretazione dei referti delle citate indagini nel caso della paziente. Secondo i CTU si sarebbe dovuta supporre come diagnosi differenziale la presenza di una infiammazione pelvica disseminata e, per tale motivo, procedere con prudenza ad impostare una terapia antibiotica ed antiinfiammatoria, al posto di un immediato intervento chirurgico, pur se finalizzato ad una definizione diagnostica più corretta.

In base a tali rilievi, la scelta terapeutica contemplata dai sanitari non è stata ritenuta condivisibile.Oltre a ciò sono stati evidenziati profili critici sulla esecuzione dell’intervento chirurgico:

“…..(..)…dalla descrizione del primo intervento risultava, oltre alle biopsie per analisi istologiche estemporanee, l’esecuzione di adesiolisi secondarie alla PID. Tale trattamento era stato eseguito senza procedere al posizionamento di drenaggi ‘spia’, volti a rilevare precocemente raccolte ematiche libere in peritoneo ed a consentire una tempestiva ed adeguata emostasi…..(..)… criticabile il fatto che, una volta risultata la negatività istologica estemporanea per neoplasia ovarica, non si sia giudicato concluso l’intervento e si sia proceduto ai citati interventi di adesiolisi, che, essendo secondari a processi infiammatori pelvici, comportano molto spesso il rischio di recidiva e di aggravamento di aderenze……”.

I CTU, in definitiva, hanno stimato il danno permanente intorno al 13-14% con una incidenza della situazione antecedente stimata in un valore inferiore al 5%.

Sulla scorta delle risultanze medico-legali, pertanto, il Tribunale ritiene accertata la condotta di inesatto adempimento della prestazione sanitaria essendo stato eseguito un intervento invasivo senza il dovuto approfondimento per escludere la diagnosi differenziale di infiammazione pelvica.

In particolare, come evidenziato dai CTU “laddove i sanitari avessero provveduto ad instaurare preventiva terapia antibiotica e antinfiammatoria, si sarebbero potuti ragionevolmente acquisire elementi di conferma della diagnosi dell’infiammazione pelvica e si sarebbe potuto, quindi, scongiurare l’intervento o, comunque, l’intervento sarebbe stato eseguito nel rispetto delle buone prassi mediche richiedenti il ‘raffreddamento’ dello stato infiammatorio. Inoltre, laddove fossero stati posizionati i drenaggi spia e si fosse evitata la procedura di adesiolisi, non si sarebbero prodotte le conseguenze insorte a seguito della copiosa emorragia verificatasi nel corso dell’intervento ed il rischio di aggravamento delle aderenze.

In risposta alle osservazioni dei CTP dell’Istituto è stato evidenziato “ come la procedura chirurgica non fosse indicata né in base all’esito delle analisi, data la aspecificità di uno dei marcatori risultati positivi e la negatività dell’altro marcatore, né alla luce delle dimensioni della ciste rilevabile dagli esami strumentali.

Il Tribunale sottolinea che per superare la presunzione di cui all’art. 1218 c.c. non è sufficiente dimostrare che l’evento dannoso per il paziente costituisca una complicanza, rilevabile nella statistica sanitaria, dovendosi ritenere tale nozione – indicativa nella letteratura medica di un evento, insorto nel corso dell’iter terapeutico, astrattamente prevedibile ma non evitabile- priva di rilievo sul piano giuridico, nel cui ambito il peggioramento delle condizioni del paziente può solo ricondursi ad un fatto o prevedibile ed evitabile, e dunque ascrivibile a colpa del medico, ovvero non prevedibile o non evitabile, sì da integrare gli estremi della causa non imputabile. (Cass. civ., 30 giugno 2015 n.13328).

Nel caso esaminato, è risultata censurabile sia la scelta di procedere all’immediato intervento, sia la mancata adozione delle cautele, quali il posizionamento dei drenaggi spia, volti ad evitare il verificarsi di sanguinamenti o comunque a consentirne il tempestivo rilevamento al fine di ridurne la gravità.

Tuttavia, differentemente dalla CTU, il Giudice ha ritenuto che non vi siano sufficienti elementi per ritenere che la determinazione del danno debba essere effettuata al netto delle preesistenze, stimate dai Consulenti in una generica percentuale inferiore al 5%. Ciò perché non risulta chiaro quali siano le patologie preesistenti che avrebbero determinato una compromissione dell’integrità psico-fisica della paziente in misura inferiore al 5%: non è stato indicato il quadro menomativo antecedente cui i Consulenti hanno riferito la citata percentuale. I Consulenti non hanno menzionato i criteri medico legali da cui evincere una menomazione preesistente ed i criteri di stima della eventuale incidenza sulla complessiva invalidità della paziente.

Conclusivamente, respinta, la personalizzazione del danno e il ristoro del lucro cessante, viene liquidato il danno non patrimoniale per l’importo di euro 38.612,00, oltre rimborso spese per psicoterapia.

Avv. Emanuela Foligno

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