La donna era deceduta a causa di una sepsi batterica pochi giorni dopo aver perso il figlio che portava in grembo

Il processo prosegue per verificare se ci siano state responsabilità da parte dei medici ma, a seguito del risarcimento ottenuto, la famiglia della vittima non è più parte civile. La vittima è Daniela, una donna di 41 anni, già madre di due bambini, deceduta a gennaio 2014 pochi giorni dopo aver perso il figlioletto che portava in grembo.

Daniela avrebbe dovuto partorire a Gavardo, dove erano nati i primi due figli, ma quando si presenta in Ospedale, a fine dicembre 2013, scopre che il cuore del piccolo non batte più. Accompagnata al marito, tenta disperatamente di raggiungere il più attrezzato Opedale Civile di Brescia, ma l’uomo, in preda all’agitazione del momento, perde l’uscita e i due proseguono fino a Cremona. Giunta al Maggiore, la donna partorisce ma per il piccolo non c’è più nulla da fare.

Nelle ore successive la 41enne continua a non sentirsi bene; i medici imputano il malessere a una forma di depressione post parto e decidono di sottoporla a consulenze psichiatriche e neurologiche. Ma dopo pochi giorni le sue condizioni peggiorano. Daniela viene condotta prima in Terapia intensiva, poi in rianimazione, e dopo poche ore muore. A stroncarla, si scoprirà dai successivi accertamenti, è una ‘sepsi batterica sfociata in shock irreversibile’.

La Procura apre immediatamente un fascicolo e iscrive nel registro degli indagati il primario del reparto di ginecologia e due medici del nosocomio cremonese. Per il Pubblico Ministero avrebbero lasciato la donna in una condizione di “oggettivo difetto di assistenza”, senza dare ascolto “allo stato di astenia e dolori diffusi” lamentati dalla paziente, sintomi che fanno parte “del corredo sintomatologico della sepsi”.

I camici bianchi, inoltre, avrebbero omesso la ripetizione degli esami di emocromo e PCR. Una diagnosi anticipata forse avrebbe permesso un trattamento mirato, capace di fermare l’aggravarsi della malattia e impedire la morte della mamma. I tre ginecologi vengono rinviati a giudizio per omicidio colposo e il processo nei loro confronti è ancora in corso.

Il marito della vittima, tuttavia, un liutaio di origini bulgare ma da anni residente a Cremona, ha ritirato la costituzione come parte civile nel procedimento dopo aver raggiunto un accordo con l’Ospedale Maggiore, che ha riconosciuto all’uomo, per il tramite della compagnia assicurativa, la liquidazione di un risarcimento pari a 750mila euro. Spetterà ora al medico legale nominato dal giudice chiarire se vi siano responsabilità dei ginecologi, come sostiene il consulente tecnico della procura, o se il loro comportamento non sia censurabile, come ritengono i consulenti dei difensori.

 

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