Omessa diagnosi di preeclampsia in gravidanza gemellare (Cassazione penale, sez. IV,  dep. 13/06/2023, n.25330).

Condanna di omicidio colposo al Ginecologo per la morte fetale endouterina di due feti gemellari e della gestante.

La Corte di Appello di Roma, revocate le statuizioni civili, confermava agli effetti penali la sentenza di primo grado che dichiarava il Ginecologo responsabile dei delitti di cui all’art. 81 c.p., comma 1, art. 589 c.p., comma 1, e L. 22 maggio 1978, n. 194, art. 17, comma 1.

Il Medico ginecologo veniva imputato di avere causato per colpa, imperizia, negligenza e imprudenza la morte della gestante, nonché l’interruzione della gravidanza con morte fetale endouterina dei due feti gemellari.

Nello specifico, la donna,  in gravidanza gemellare monocoriale ciamnotica da procreazione medica assistita, affetta da Lupus Eritematoso Sistemico Les, sindrome da anticorpi antifosfolipidi, sindrome nefrosica, ipoalbuminemia, proteinuria, era in condizione di gravidanza ad elevato rischio.

Secondo i Giudici di appello, l’imputato –Ginecologo di fiducia- , a fronte di edemi agli arti inferiori (annotati in cartella clinica), di referti di analisi di laboratorio che evidenziavano marcata disprotidemia e marcata proteinuria, e a fronte di un considerevole aumento pressorio che, pur diminuito nei due controlli successivi, era rimasto ben oltre i valori di normalità, essendovi elementi per porre il sospetto diagnostico, oltre che di danno renale e quindi un segnale di un danno d’organo LES (nefrite lupica), anche di preeclampsia (patologia caratterizzata da un aumento dei valori pressori associati a perdita di proteine, con evoluzione ingravescente che complica il 5% delle gravidanze mettendo in pericolo la salute del feto e della madre, il legame tra le due condizioni tale che la proteinuria, nelle pazienti affette da nefrite lupica, tendendo ad aggravarsi durante la gravidanza in circa la metà dei casi e l’ipertensione sviluppandosi e peggiorando in circa un quarto delle donne affette da LES), non aveva prescritto il ricovero della paziente in ambito ospedaliero.

Ciò avrebbe potuto confermare la diagnosi di preeclampsia, a seguito della quale si sarebbero potuti adottare i conseguenti opportuni provvedimenti terapeutici e in particolare valutare l’esigenza, stimato il rapporto rischio-beneficio sul versante neonatale, dell’anticipazione del parto eseguendo parto cesareo.

Invece, l’imputato, dimetteva la paziente con diagnosi di “gravidanza gemellare, proteinuria LES disprotidemia” e con prescrizione di effettuare infusioni di albumina, controlli pressori quotidiani, consulenza nefrologica e continuazione della terapia in corso.

Successivamente, lo stesso, in regime privatistico, rivalutava la condizione clinica della paziente, la quale si era presentata lamentando edemi agli arti inferiori, cefalea e dispnea, e prendeva visione del referto degli esami di laboratorio da cui emergeva un valore relativo alle proteine urinarie nelle ventiquattr’ore di 15.600 mg e dei rilievi pressori domiciliari che mostravano un progressivo incremento negli ultimi giorni soprattutto della pressione arteriosa sistolica, non poneva il sospetto diagnostico di preeclampsia severa e non prescriveva l’immediato accesso della paziente in pronto soccorso per valutare l’esigenza dell’anticipazione del parto mediante taglio cesareo.

L’imputato impugna la decisione in Cassazione lamentando vizio motivazionale nella ricostruzione del nesso causale; mancanza di motivazione sulla scelta delle linee guida e sui profili di negligenza, imprudenza o imperizia.

Secondo la tesi difensiva del Ginecologo, la donna non aveva mai lamentato ad alcun sanitario sintomi di “edemi diffusi, cefalea”. Al contrario, dalle risultanze probatorie è emerso che la signora, in sede di visita privata, veniva invitata  a recarsi al pronto soccorso in tarda serata, quando l’imputato sarebbe stato di guardia, cosa mai avvenuta per scelta della donna.

Ed ancora, sempre secondo il Ginecologo imputato, essendo stato escluso che la causa della morte fosse un picco ipertensivo, non sarebbe stato coerente con tale esito ascrivere la morte alla preeclampsia severa. La motivazione è contraddittoria perché, da un lato, attribuisce rilievo all’edema polmonare e ai picchi ipertensivi ma, dall’altro, asserisce che tali picchi non vi siano stati.

Il ricorso non supera il vaglio di ammissibilità.

La Corte territoriale ha puntualmente replicato alle censure difensive con riguardo all’accertamento della causa della morte della gestante e dei due feti gemellari. Ha, infatti, spiegato, indicando quali fossero i sintomi che la donna presentava già tempo prima del momento dell’instaurarsi dei sintomi terminali, le ragioni per le quali non potesse configurarsi una morte sopraggiunta inaspettatamente, ossia entro un’ora dall’inizio della sintomatologia acuta, quale si definisce tecnicamente la c.d. morte improvvisa, che colpisce soggetti in pieno benessere o soggetti il cui stato di malattia non faccia prevedere un esito così repentino.

I Giudici di secondo grado hanno, quindi, esaminato il referto autoptico che concludeva come improbabile la morte cardiaca improvvisa rilevando, per converso, la presenza di “edema e congestione polmonare massiva” la cui causa era da individuare in tutte le alterazioni ematochimiche accertate, in particolare l’albuminuria, la proteinuria, che aveva provocato edemi diffusi, l’ipertensione arteriosa e le difficoltà respiratorie.

 Ciò significa che gli stessi hanno preso atto del fatto che la causa della morte non fosse stata un picco ipertensivo ma hanno spiegato, con motivazione non manifestamente illogica, che la tesi difensiva, che aveva attribuito efficacia decisiva all’elemento mancante dell’emorragia cerebrale, non fosse sufficiente a sconfessare l’esito della perizia, che aveva valorizzato l’edema e la congestione polmonare massivi, in relazione ai quali i consulenti di parte non avevano saputo offrire adeguata spiegazione.

Ciò posto, gli Ermellini rammentano che è regola di diligenza professionale del Medico fornire informazioni corrette e dettagliate, per prevenire il rischio che il paziente adotti scelte, o ponga in essere condotte, non congrue in relazione alle sue condizioni di salute.

Il ricorso viene dichiarato inammissibile, con riguardo a tutte le censure mosse.

Il ricorrente viene condannato al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

Avv. Emanuela Foligno

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