Partita di rugby e lesioni gravi all’avversario (Cass. pen., sez. IV, 19 maggio 2023, n. 21452).

Lesioni gravi all’avversario di gioco nel corso di una partita di rugby.

La Corte di Appello di Venezia revocava le statuizioni civili a carico della imputata, in quanto la parte civile dopo la sentenza di primo grado aveva instaurato un giudizio civile in data 23.09.21, azionando in tale sede la medesima domanda risarcitoria, e confermava per il resto la sentenza di condanna del Tribunale di Vicenza in relazione al reato di lesioni colpose ex art. 590 c.p. .

Detto in altri termini, la Corte di merito riconosceva la responsabilità colposa della imputata  per avere procurato gravi lesioni, oltre all’indebolimento permanente della vista, alla persona offesa, durante una partita di rugby in occasione della coppa italiana femminile.

Secondo la ricostruzione dei Giudici di merito, durante la partita l’imputata, nella fase successiva ad un placcaggio da parte della persona offesa, entrambe le giocatrici erano cadute a terra e l’imputata, che si trovava sopra, aveva alzato il braccio destro a squadra e aveva colpito con il gomito al volto l’avversaria, procurandole la frattura della parte inferiore mediale dell’orbita destra, con incarceramento del muscolo oculare, causandole lesioni che necessitavano di un ricovero ed un intervento chirurgico di riduzione della frattura del pavimento orbitario destro, scarcerazione del muscolo orbitario e ricostruzione della parete mediale con mash in titanio.

La Corte territoriale dava rilievo alla circostanza che il fatto lesivo veniva posto in essere subito dopo un placcaggio, del tentativo dell’imputata di riprendere il gioco e di rialzarsi da terra; colpendo la persona offesa con una gomitata, violando la regola specifica sportiva e comunque esercitando una forza sicuramente sproporzionata ed esorbitante a quella strettamente necessaria per rimettersi in piedi.

L’atleta soccombente ricorre in Cassazione.

Lamenta violazione di legge in quanto gli atti non sono stati rinviati al Giudice di primo grado competente per materia all’esito della riqualificazione effettuata dal Giudice di primo grado in lesioni colpose; violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla mancata indicazione della regola cautelare specifica violata e al travisamento della prova testimoniale in quanto non è certo che la gomitata sia stata sferrata e ciò alla luce di alcune dichiarazioni testimoniali specificatamente indicate;  lamenta infine che non è stata ritenuta applicabile la scriminante del c.d. rischio consentito.

Le censure inerenti la tematica della individuazione dei confini dell’area del penalmente rilevante, in rapporto alla condotta lesiva dell’altrui integrità fisica nell’ambito delle competizioni sportive, sono fondate.

Il principio secondo cui il “rischio consentito” è quello accettato dall’atleta in relazione al rispetto delle regole tecniche per la pratica sportiva di riferimento, per cui la esorbitante violazione di tali regole ricondurrebbe la condotta antisportiva nell’area del penalmente rilevante,  non risolve il problema di delineare i criteri giuridici da seguire per affermare se un fatto lesivo commesso nel corso di un’attività sportiva sia concretamente una condotta tipica penalmente (e/o civilmente) rilevante.

E’ già stato affermato, e la Corte con la decisione a commento si pone in continuità, che nell’analisi dell’eventuale responsabilità dell’atleta per fatti dannosi commessi durante l’attività sportiva deve essere abbandonato lo stereotipo ristretto del rischio consentito e dell’agente modello.

L’attività sportiva, così come altre attività potenzialmente pericolose,  non si sottrae all’indagine di responsabilità colposa (o dolosa) in caso di eventi lesivi della vita o dell’integrità fisica delle persone, accaduti nel corso o in occasione del suo esercizio. In tale ottica è privo d logica discorrere di scriminante: l’attività è un’attività lecita, rispetto alla quale i partecipanti accettano di correre determinati rischi, sempre che la loro integrità fisica non sia da altri deliberatamente lesa, o danneggiata colposamente, a seguito della violazione di predeterminate regole cautelari.

La verifica della colpa sportiva non può prescindere dagli ordinari criteri stabiliti dall’art. 43 c.p., in particolare riscontrando l’eventuale violazione della regola cautelare, generica o specifica, non corrispondente alla regola tecnico-sportiva in astratto applicabile. Pertanto, sono illeciti quei comportamenti che non sono riconducibili al gioco, pur nelle sue espressioni pericolose, o perché intenzionalmente diretti a procurare danno alla persona oppure perché, siccome in contrasto con il principio di lealtà sportiva, sono estranei all’ambito di applicazione delle regole del gioco.

Nell’accertamento della sussistenza della colpa non ha rilievo l’entità del danno procurato, poiché oggetto della valutazione non sono le conseguenze dannose in quanto tali, bensì le specifiche modalità della condotta dell’atleta, avuto riguardo alle caratteristiche dell’azione nell’ambito del contesto agonistico di riferimento.

I Giudici di appello hanno fondato il giudizio di responsabilità ragionando sulla gratuità dell’azione fallosa, affermando che doveva ritenersi superato il rischio consentito dall’espletamento dell’attività sportiva specifica in quanto l’azione non era avvenuta in una fase di concitamento e comunque la gomitata era sproporzionata come violenza rispetto alla necessità di rialzarsi da terra mentre il corpo dell’avversaria era sotto di lei e che l’imputata ha sferrato una gomitata in violazione della regola sportiva regolamentare dell’attività agonistica.

Ebbene le considerazioni dei Giudici di appello paiono del tutto generiche e  potrebbero valere per qualsiasi contesto agonistico, ma  non affrontano il nodo centrale della questione, che è quello di stabilire se nel caso concreto vi fu un comportamento colposo giuridicamente rilevante, in quanto commesso in violazione di una predeterminata regola cautelare, che nel caso non è stata in alcun modo evocata, nè individuata.  

Anzi nella sentenza di primo grado che ha derubricato il reato in lesioni colpose, si legge che il Giudice Sportivo, dando atto che dalle videoriprese non è individuabile l’esatto svolgimento dei fatti essendo visibile solo un movimento scomposto, ha scritto che “…… si dà atto che la giocatrice, essendo trattenuta a terra dalla giocatrice , si divincolava e nell’alzarsi colpiva accidentalmente la giocatrice …..”.

Conclusivamente la Suprema Corte dichiara sussistenti i presupposti, discendenti dalla intervenuta instaurazione di un valido rapporto processuale di impugnazione, per rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell’art. 129 c.p.p. maturate successivamente rispetto alla sentenza impugnata; rileva d’ufficio l’intervenuta causa estintiva del reato per cui si procede, essendo spirato il termine di prescrizione massimo, di sette anni e mesi sei.

Per tutti questi motivi, il Collegio annulla la pronuncia impugnata.

Avv. Emanuela Foligno

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