I requisiti sanitari per la prestazione devono necessariamente comprendere, in ipotesi di patologie psichiatriche, l’incapacità di stabilire autonomamente se, quando e come svolgere gli atti elementari della vita quotidiana

L’indennità di accompagnamento va riconosciuta, alla stregua di quanto previsto dall’art. 1 della legge 11 febbraio 1980, n. 18, anche in favore di coloro i quali, pur essendo materialmente capaci di compiere gli atti elementari della vita quotidiana (quali nutrirsi, vestirsi, provvedere alla pulizia personale, assumere con corretta posologia le medicine prescritte) necessitano della presenza costante di un accompagnatore in quanto, in ragione di gravi disturbi della sfera intellettiva, cognitiva o volitiva dovuti a forme avanzate di gravi stati patologici, o a gravi carenze intellettive, non sono in grado di determinarsi autonomamente al compimento di tali atti nei tempi dovuti e con modi appropriati per salvaguardare la propria salute e la propria dignità personale senza porre in pericolo sé o gli altri. Lo ha chiarito la Suprema Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 10633/2021 specificando, anche sulla base di altri precedenti giurisprudenziali, che i requisiti sanitari per la prestazione in esame devono necessariamente comprendere, in ipotesi di patologie psichiatriche, l’incapacità di stabilire autonomamente se, quando e come svolgere gli atti elementari della vita quotidiana, atteso che rileva anche la capacità di intendere il significato e la portata di simili gesti, a tutela oltre che della salute, della dignità della persona.

Nel caso esaminato gli Ermellini si sono pronunciati sul caso di un uomo che si era visto respingere, in sede di merito, la domanda volta ad ottenere l’accertamento del requisito sanitario per il riconoscimento dell’indennità di accompagnamento, a far data dalla visita di revisione.

Il Tribunale, richiesta nota scritta di chiarimenti al c.t.u. nominato nella prima fase, aveva disposto una nuova consulenza medico legale d’ufficio, autorizzando il perito ad avvalersi dell’ausilio di uno specialista psichiatra.

In base all’esito della perizia, peraltro condivisa da uno dei due consulenti tecnici nominati dal ricorrente, il primo giudice aveva ritenuto non dimostrati i requisiti sanitari necessari ai fini della prestazione richiesta.

Nel rivolgersi alla Cassazione, l’uomo deduceva, tra gli altri motivi, violazione e falsa applicazione dell’art. 19, legge n. 18/1980 e dell’art. 1, legge n. 508/1988, anche in relazione all’interpretazione fornita dalla giurisprudenza di legittimità, con particolare riferimento a come i requisiti richiesti per l’indennità di accompagnamento si modulano in caso di malattie psichiatriche.

Il Supremo Collegio, tuttavia, ha ritenuto di non aderire alla doglianza proposta ritenendo che il Giudice a quo avesse interpretato le norme di legge in questione in modo coerente ai principi di diritto affermati dalla giurisprudenza di legittimità e richiamati nel ricorso in esame.

In particolare le censure mosse, che facevano leva sulla condizione del ricorrente di “malato psichico, affetto da una grave forma di psicosi delirante, in costante terapia”, interdetto e affidato ad un tutore, pretendevano di desumere da tali requisiti la sussistenza delle condizioni richieste per la prestazione in esame; esse investivano, nella sostanza, non il modo in cui il primo giudice aveva interpretato le norme di legge ma, piuttosto, la valutazione, che si assumeva erronea, di insussistenza nel caso concreto dei requisiti necessari per l’integrazione della fattispecie descritta dalle disposizioni sopra citate. Da li il rigetto del ricorso.

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