La Corte di Cassazione conferma la decisione del Gup per il quale non è ravvisabile un generico dovere di custodia in capo al medico psichiatra, salvo non via sia un concreto pericolo che il paziente compia atti di autolesionismo

La Corte di Cassazione, quinta sezione penale, si è pronunciata, con sentenza n. 50681/2016, in merito al dovere di custodia del medico psichiatra nei confronti del proprio paziente ricoverato in Ospedale. La vicenda sottoposta agli Ermellini riguardava nello specifico una paziente affetta da disturbo borderline di personalità ed etilismo cronico, che si era volontariamente ricoverata presso il reparto psichiatrico di una struttura sanitaria ma, un giorno prima delle dimissioni, era morta nel tentativo di fuggire calandosi dalla finestra con le lenzuola.
Il medico psichiatra di servizio presso il presidio ospedaliero era stato accusato del reato di abbandono di soggetto incapace, previsto dall’articolo 591 del codice penale, per aver omesso le doverose cautele atte a prevenire atti di autolesionismo e di non avere attivato adeguati strumenti di tutela e controllo della paziente. Il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Avellino aveva prosciolto il camice bianco sostenendo che non è ravvisabile in capo al medico psichiatra un generico dovere di custodia nei confronti del paziente, salvo che non vi sia un concreto pericolo che il paziente commetta gesti di autolesionismo. Nel caso esaminato, secondo il Gup, la paziente non si era fatta male per avere posto in essere atti di autolesionismo, ma per avere tentato la fuga con modalità spericolate; una situazione di pericolo del tutto imprevedibile e non connessa con la patologia da cui la donna – che peraltro si era ricoverata volontariamente e in passato non aveva mai tentato la fuga – era affetta.
Contro tale decisione il Pubblico ministero era ricorso in Cassazione  lamentando la mancata valutazione da parte del Gup della posizione di garanzia in capo al medico psichiatra del reparto e contestando il giudizio di imprevedibilità della condotta della paziente la cui storia  aveva offerto indicazioni univoche sulla possibilità del compimento di atti di autolesionismo ma anche di tentativi di fuga come emerso dalla testimonianza della zia e tutrice della donna che aveva dichiarato di averla sentita mentre urlava, nel corridoio del reparto, che si voleva buttare dalla finestra.
La Suprema Corte, tuttavia, ha respinto il ricorso ritenendolo infondato sotto plurimi aspetti. In particolare, con riferimento all’argomentazione del Pm relativa alla prevedibilità della condotta della paziente, gli Ermellini hanno evidenziato come il diario clinico della paziente non contenesse alcuna indicazione dei propositi di suicidio manifestati dall’interessata e pertanto l’imputato, che non era presenta nel momento in cui la donna avrebbe manifestato tali propositi non poteva esserne a conoscenza
Inoltre, secondo i giudici della Cassazione l’elemento soggettivo del reato contestato presuppone il dolo generico che consiste nella coscienza di abbandonare un soggetto incapace di provvedere alle proprie esigenze in presenza di una situazione di pericolo per la sua incolumità di cui si ha l’esatta percezione, mentre nel caso in questione una eventuale responsabilità dello psichiatra potrebbe essere costruita solo in termini di colpa nel valutare le condizioni della paziente e la rispondenza alle sue necessità di cura dell’ambiente in cui era ricoverata, fattispecie non considerata nel procedimento in esame.

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