La predisposizione ovvero il preesistente stato di vulnerabilità psicologica nel paziente non incide sulla quantificazione del danno, in caso di errore medico

La vicenda

La vicenda trae origine dall’azione giudiziaria rivolta da una paziente contro l’ospedale cittadino per l’accertamento della responsabilità – contrattuale ed extracontrattuale – della struttura sanitaria per le inadeguate e negligenti prestazioni sanitarie fornite e la conseguente, condanna al risarcimento di tutti i danni patiti.
In particolare, l’attrice affermava che l’erronea valutazione di esami ecografici aveva determinato il ritardo nella diagnosi di una patologia neoplastica mammaria (giudicata inoperabile al momento della scoperta) e la proliferazione di metastasi al cervello, ai polmoni e alle ossa; l’evoluzione della malattia nella paziente aveva comportato gravi pregiudizi per la medesima e anche l’insorgenza di patologie psichiche per i suoi familiari.
si costituiva in giudizio l’ASL che contestava la domanda avversaria, negando la propria responsabilità, e le pretese risarcitorie, reputate eccessive e non derivanti dalla condotta dei sanitari.
Nel corso del primo grado di giudizio sopraggiungeva il decesso della donna e il processo proseguiva per volontà degli eredi.
Il Tribunale di Rieti, accoglieva la domanda degli istanti e condannava l’azienda ospedaliera al risarcimento di tutti i danni. Stesso esito nel giudizio d’appello; cosicché il processo proseguiva in Cassazione.
L’ASL insisteva per l’annullamento della decisione impugnata, stante l’assenza di nesso causale tra la condotta dei sanitari e il decesso della paziente.
A detta della ricorrente, neppure una diagnosi tempestiva avrebbe evitato la morte della donna, nè la reazione psichica della stessa e dei suoi familiari.
Ma sul punto la corte di merito aveva già ampiamente argomentato, affermando che gli esiti patologici erano stati determinati proprio dall’errore medico e che, perciò, più intensa era stata la sofferenza psichica della paziente e dei suoi congiunti (“una cosa è ritrovarsi colpiti da un cancro ormai inguaribile, ovvero con uno stretto congiunto colpito dal male, per responsabilità ascrivibile all’incapacità del medico; una cosa è ritrovarsi nella medesima situazione quantunque si sia fatto tutto il possibile per evitare l’infausta evoluzione della malattia).
Nell’affermare che la sofferenza psichica derivante dalla consapevolezza di un male incurabile è differente a seconda della presenza o dell’assenza di un errore medico, la Corte d’appello di Roma non aveva però, compiuto correttamente la suesposta valutazione: non erano nè state richiamate nè illustrate leggi scientifiche o regole statistiche o logiche in base alle quali poter affermare che la condotta dei sanitari avrebbe potuto influire sulla sofferenza derivante dalla patologia con prognosi infausta, acuendola in caso di negligenza o lasciandola inalterata in caso di cure diligenti.
Ciononostante, ad avviso della Suprema Corte, l’erroneità delle suesposte ragioni della decisione non scalfiva la fondatezza del dispositivo, conforme al diritto.
In base alle risultanze istruttorie era stato possibile provare la sussistenza del nesso di causalità fra il predetto inadempimento e i danni lamentati dagli attori: (E’) sufficiente, ai fini della prova dell’an debeatur, l’accertamento di un fatto potenzialmente dannoso in base ad una valutazione anche di probabilità o di verosimiglianza secondo l’id quod plerumque accidit.

Il pregresso stato di vulnerabilità della paziente

Nello stesso ricorso, l’Asl aveva altresì contestato la decisione impugnata per non aver tenuto conto nella quantificazione del danno psichico subito dalla paziente, dei suoi precedenti disturbi psichici originati da fattori diversi dalla reazione alla malattia e, in ogni caso, della sua peculiare di predisposizione a tale disturbo patologico.
Ma il motivo per i Giudici della Cassazione è infondato.
Secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale “se il danneggiato, prima dell’evento, risulti portatore di una mera “predisposizione” ovvero di uno “stato di vulnerabilità” (stati preesistenti non necessariamente patologici o invalidanti, ciò che risulta ancor più frequente nel delicato universo dei danni psichici), ma l’evidenza probatoria del processo non consenta, in proposito, di superare la soglia della mera ipotesi, e comunque appaia indimostrabile la circostanza che, a prescindere dalla causa imputabile, la situazione pregressa sarebbe comunque, anche in assenza dall’evento di danno, risultata modificativa in senso patologico-invalidante della situazione del soggetto: in tal caso, il giudice non procederà ad alcuna diminuzione del quantum debeatur, atteso che un’opposta soluzione condurrebbe ad affermare l’intollerabile principio per cui persone che, per loro disgrazia (e non già per colpa imputabile ex art. 1227 c.c. o per fatto addebitabile a terzi) siano, per natura e per vicissitudini di vita più vulnerabili di altre, dovrebbero irragionevolmente appagarsi di una tutela risarcitoria minore rispetto a quella riservata agli altri consociati affetti da “normalità” (Cass., Sez. 3, Sentenza n. 15991 del 21/07/2011).
Al rigetto del ricorso è seguita la condanna della ricorrente alla rifusione delle spese di giudizio in favore delle altre parti in causa.

Dott.ssa Sabrina Caporale

 
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