E’ ormai arcinoto come il rischio di condanna alle spese di giudizio sia una delle “barriere giuridiche” meno sormontabili quando si discute di accesso alla giustizia.
Anche il Tribunale di Reggio Emilia (ord. n 1 del 28.2.2017 g. Vezzosi) dopo Torino nel 2014 e Camerino, rimette alla Consulta la questione di legittimità della nuova disciplina delle spese giudiziali, applicabile anche al processo del lavoro.
Nell’attesa della decisione, anche solo la lettura dell’ordinanza di remissione, induce alcune riflessioni che vogliamo condividere.
E’ oltremodo rilevante la questione posta circa la nuova formulazione dell’art. 92 c.p.c. che – limitando il potere del giudice di valutare discrezionalmente il tema delle spese di giudizio che è passaggio finale ma non di minor giustizia della definizione degli altri capi della domanda, comprime la possibilità reale di tutela dei diritti.
Questo avviene – a maggior ragione – nelle cause aventi ad oggetto diritti rivendicati dal lavoratore (1), del quale come argomentato nell’ordinanza in commento si ribadisce la debolezza ontologica nel processo del lavoro, quando lo stesso lavoratore invochi diritti quasi sempre soggetti a controprova su elementi non conosciuti dall’attore ovvero – ancor di più nei processi aventi ad oggetto diritti assistenziali, previdenziali o della personalità.
Giusto per dare un minimo di prospettiva ormai storica, preme ricordare che l’art. 10 della legge 533/73 relativo alle spese delle controversie di lavoro e di quelle di previdenza e assistenza, come modificato dall’art. 23 comma 2 della l. 134/2001 e dall’art. 1 della l. 437/2001 aveva previsto che gli atti i documenti e i provvedimenti per controversie individuali di lavoro o di pubblico impiego, nonché le cause di previdenza e assistenza obbligatorie sono esenti, senza limite di valore e competenza, dall’imposta di bollo, di registro e da ogni spesa, tassa o diritto di qualsiasi specie e natura.
Su questo impianto si sono innestate nel corso degli ultimi quattro lustri diverse riforme tutte tendenti alla deflazione del carico pendente innanzi alla Autorità Giudiziaria, a partire dalla notoria limitazione– in vigore definitivamente dal 30.6.2005 – della gratuità universale del giudizio a chi non supera la soglia reddituale (riferita all’intero nucleo familiare) di poco meno di 24 mila euro, per quanto riguarda il contenzioso previdenziale ed assistenziale.
Se sono astrattamente condivisibili le finalità delle plurime riforme intervenute, che puntano ad una maggiore celerità dei procedimenti, sia consentito affermare che le esigenze di concentrazione e risparmio in termini strettamente economici o di risorse (in una parola di deflazione), non possono comportare una contrazione dei diritti dei cittadini che, in molti casi sono diritti acquisiti.
Di recente un’ulteriore riforma dell’art. 92 c.p.c ha infatti rigidamente tipizzato le ipotesi in cui è consentito al giudicante la compensazione delle spese giudizio, prevedendo tre sole ipotesi (2) al di fuori delle quali il giudice deve fare applicazione della regola generale della soccombenza, ponendo le spese di lite a carico della parte che perde il giudizio.
Il rischio insito nel combinato disposto del nuovo testo dell’art. 152 disp. att. c.p.c. e del testo riformato dell’art. 92 c.p.c. è quello di una giustizia per soli ricchi in cui le ragioni della parte debole non troveranno adeguata risonanza, inducendo molti a non denunciare possibili situazioni di abuso per il solo fatto di non potersi permettere l’accesso al proprio giudice naturale.
La pressoché totale elisione del potere decisorio in punto di spese, nelle parole del giudice del lavoro di Reggio Emilia, colpisce irragionevolmente una parte incolpevole che di certo non ha abusato del processo o invocato presunti diritti che, a priori, sapeva essere inesistenti.
Si consideri anche che l’effetto di deterrenza dal giudizio, insito nelle riforme fin qui operate, è tanto maggiore quanto irragionevole, tanto minore sia la capacità economica del lavoratore, con violazione diretta del principio di uguaglianza tanto formale che sostanziale.
Occorre, a parere di chi scrive ritrovare un punto di equilibrio, tanto più necessario nelle controversie in materia di lavoro e previdenza nelle quali l’attore in primo grado è sostanzialmente sempre la parte privata oltre che, in generale, nelle cause in cui si discute di diritti personali o personalissimi in materia di famiglia e stato delle persone o in materia di salute.
Ci siederemo sul fiume in attesa dell’esito, ma una Giustizia che sia tale non può essere per censo.

Avv. Silvia Assennato
(Foro di Roma)

SCARICA QUI L’ORDINANZA DEL TRIBUNALE DI REGGIO EMILIA

(1) Il differenziale nel costo dell’accesso iniziale alla giustizia, gravante esclusivamente sul lavoratore, è nell’ordine del 50-70% a suo sfavore considerando che le controparti (siano esse aziende o enti) vanno incontro comunque a spese detraibili dal reddito e rispetto alle quali sarà possibile recuperare l’IVA

(2) Se vi è soccombenza reciproca, ovvero nel caso di assoluta novità della questione trattata o mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti, il giudice può compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero (l. 10 novembre 2014 n.162)

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