Il giudice non è tenuto a provvedere su domande che non siano ritualmente formulate (art. 112 c.p.c.). E in particolare, una domanda di risarcimento danni, in cui la ricorrente utilizzi l’espressione “danni subiti e subendi”, per intendere il riconoscimento dei danni per spese mediche future (trapianto di cornea e sostituzione della cornea trapiantata quando ne sarebbe esaurita la funzionalità biologica) deve ritenersi tamquam non esset.
È quanto di recente affermato dai giudici della III Sezione Civile della Cassazione con la sentenza n. 13328 del 30/06/2015.
L’art. 163 c.p.c., comma 2, nn. 3 e 4, impone all’attore di esporre, nell’atto di citazione:
– la determinazione della cosa oggetto della domanda;
– i fatti e gli elementi di diritto costituenti le ragioni della domanda.
Ma che cos’è esattamente questa “cosa”? In prima approssimazione si può rispondere che si tratta del diritto di cui l’attore chiede il riconoscimento, ossia il diritto che l’attore ritiene di avere e che vuole gli sia riconosciuto in sentenza.
In realtà, “cosa oggetto della domanda” può indicare due differenti “cose”. Poiché rivolgersi al giudice chiedendo tutela giurisdizionale, significa domandare uno specifico provvedimento provvisto di un certo contenuto, di oggetto della domanda può e deve parlarsi tanto con riferimento alla richiesta de provvedimento, quanto al contenuto di esso provvedimento, cioè al concreto riconoscimento del proprio diritto. (SASSANI).
La citazione deve poi contenere “l’esposizione dei fatti e degli elememti di diritto costituenti le ragioni della domanda con le relative conclusioni”. Non basta chiedere, ad es., la condanna di alcuno a restituire un bene, ma bisogna anche esporre le ragioni, di fatto e di diritto, cioè il perché si chiede la restituzione. Bisogna dare un “perché giuridico” alla richiesta, dare cioè all’oggetto della domanda il suo titolo, titolo che prende il nome tecnico di causa petendi. Dare gli elementi “di diritto” significa individuare la norma o il principio giuridico da cui si vogliono far discendere gli effetti perseguiti. Dare gli elementi “di fatto” significa, invece, indicare nell’atto i fatti (storici) idonei a giustificare l’applicazione della norma giuridica individuata e invocata. (SASSANI).
Ora, in tema di risarcimento del danno da fatto illecito o da inadempimento contrattuale, la “cosa” oggetto della domanda è il pregiudizio di cui si invochi il ristoro, e gli “elementi di fatto” costitutivi della pretesa sono rappresentati dalla descrizione della perdita che l’attore lamenti di avere patito.
L’adempimento dell’onere di allegare i fatti costitutivi della pretesa è preordinato:
(a) a consentire al convenuto l’esercizio del diritto di difesa;
(b) a consentire al giudice di individuare il thema decidendum.
Pertanto – aggiunge la Suprema Corte – chi domanda in giudizio il risarcimento del danno ha l’onere di descrivere in modo concreto i pregiudizi dei quali chiede il ristoro, senza limitarsi a formule vuote e stereotipe come la richiesta di risarcimento dei “danni subiti e subendi”. Domande di questo tipo, quando non ne sia dichiarata la nullità ex art. 164 c.p.c., non fanno sorgere in capo al giudice alcun obbligo di provvedere in merito al risarcimento dei danni che fossero descritti concretamente solo in corso di causa.
Invero, non si tratta di principi nuovi, ma ripetutamente affermati nella giurisprudenza di questa Corte. Già Sez. Un, Sentenza n. 11353 del 17/06/2004, Rv. 574223, che stabilì che l’onere di contestazione gravante sul convenuto, e quello di allegazione gravante sull’attore, sono tra loro speculari e complementari: sicché il mancato assolvimento del secondo, non fa sorgere il primo.
E ancora, più di recente, Sez. III, Sentenza n. 10527 del 13/05/2011, ha affermato che “l’onere di allegazione (…) va adempiuto in modo circostanziato, non potendo risolversi in mere enunciazioni generiche, astratte od ipotetiche”.
Infine, da ultimo, Sez. III, Sentenza n. 691 del 18/01/2012, ha stabilito che “le allegazioni che devono accompagnare la proposizione di una domanda risarcitoria non possono essere limitate alla prospettazione della condotta in tesi colpevole della controparte (…), ma devono includere anche la descrizione delle lesioni, patrimoniali e/o non patrimoniali, prodotte da tale condotta, dovendo l’attore mettere il convenuto in condizione di conoscere quali pregiudizi vengono imputati al suo comportamento, e ciò a prescindere dalla loro esatta quantificazione e dall’assolvimento di ogni onere probatorio al riguardo” (nello stesso senso, Sez. 3, Sentenza n. 17408 del 12/10/2012, Rv. 624080).
In altre parole l’attore ha «il dovere di indicare analiticamente e con rigore i fatti materiali che assume essere stati fonte di danno. E dunque in cosa è consistito il pregiudizio non patrimoniale; in cosa è consistito il pregiudizio patrimoniale; con quali criteri di calcolo dovrà essere computato. Questo essendo l’onere imposto dalla legge all’attore che domanda il risarcimento del danno, ne discende che una richiesta di risarcimento dei “danni subiti e subendi”, quando non sia accompagnata dalla concreta descrizione del pregiudizio di cui si chiede il ristoro, va qualificata generica ed inutile. Generica, perché non mette né il giudice, né il convenuto, in condizione di sapere di quale concreto pregiudizio si chieda il ristoro; inutile, perché tale genericità non fa sorgere in capo al giudice il potere – dovere di provvedere».
Sembra dunque piuttosto ragionevole condividere l’orientamento odierno della Suprema Corte di Cassazione. L’utilizzo di formule vuote e stereotipate mai come in questo caso, pare essere privo di “fascino” oltreché lontano dal fine perseguito. È necessaria, probabilmente la promozione di una «nuova e profonda cultura giuridica», non disgiunta dall’abbandono di schemi e rigidi rituali.
Non può, comunque, sottacersi dell’esistenza di giurisprudenza contraria. Cass., 13/10/2009, n. 21680, secondo cui «(…) allorché si chieda, in sede di responsabilità aquiliana, il risarcimento di “tutti i danni”, la domanda investe sia il danno patrimoniale che quello non patrimoniale. In tema di risarcimento dei danni da responsabilità civile, dunque, la domanda di risarcimento di tutti i danni, patrimoniali e non patrimoniali, proposta dal danneggiato nei confronti del soggetto responsabile, per la sua onnicomprensività esprime la volontà di riferirsi ad ogni possibile voce di danno, con la conseguenza che solo nel caso in cui nell’atto di citazione siano indicate specifiche voci di danno, l’eventuale domanda proposta in appello per una voce non già indicata in primo grado, costituisce domanda nuova, come tale inammissibile». E così Cass., 16/6/2011 n. 13179 e, Cass., 17/12/2009, n. 26505, ove si afferma che «in caso di domanda di risarcimento di “tutti i danni” (nella specie conseguenti alla morte di una persona), la quale è indicativa della volontà di conseguire l’integrale risarcimento di tutte le voci di danno legittimamente ricollegabili all’evento lesivo, la successiva specificazione dei singoli danni di cui si invochi la liquidazione ha valore meramente esemplificativo e non può essere interpretata come volontà di delimitare il petitum».

Avv. Sabrina Caporale

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1 commento

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