Adesso l’avvocato della donna – che si è ritrovata una garza dimenticata nell’addome dopo il parto  – è proprio suo figlio.

Nel 1985, una donna di Bergamo, durante un cesareo, si è ritrovata con una garza dimenticata  nell’addome dopo il parto. Da quel giorno, sono passati 33 anni e la causa per ottenere giustizia, e un congruo risarcimento danni, è ancora in corso.

La vicenda

Tutto comincia quel giorno del 1985, quando la donna – un avvocatessa che aveva 31 anni all’epoca – viene sottoposta a un parto cesareo durante il quale nasce Andrea, suo figlio. Che oggi è anche il suo avvocato.

Dopo aver dato alla luce suo figlio, iniziano i problemi. Ben 10 mesi di dolori, ittero, crampi, che conducono la donna a ritornare in ospedale col terrore di avere un tumore o altre gravi patologie. Ma la ragione era una garza dimenticata dopo il parto proprio nell’addome.

All’epoca, a Bergamo, c’erano gli Ospedali Riuniti e sul risarcimento danni si ragionava in lire. L’ospedale nel 1998 ha riconosciuto l’errore medico e l’assicurazione ha pagato a 13 dai fatti. L’avvocatessa ha ricevuto 110 mila euri.

Tuttavia, la causa è andata avanti a colpi di ricorsi.

La donna, infatti, ha chiesto che le somme venissero riadeguate al tempo trascorso. Inoltre, ha chiesto espressamente degli indennizzi per i mesi trascorsi senza poter lavorare all’epoca dei fatti, e i costi di tutti i gradi di giudizio.

Una causa-fiume: una sentenza del tribunale civile di Bergamo più tre passaggi in Appello e tre in Cassazione, che di recente ha rinviato di nuovo in secondo grado per le spese legali. All’inizio, a difendere la donna, ci pensò il padre, anche lui avvocato.

E così la donna, procuratore legale dal 1983. Negli anni si è auto-assistita nella sua causa contro questo clamoroso errore medico. Ora, a difenderla, c’è il figlio.

Con il trascorrere del tempo si è auto-assistita, nella sua causa, e ora la aiuta il figlio.

Che facendo i conteggi si è reso conto che alla donna erano stati liquidati 20.000 euro in più. “Avevamo proposto che compensassero a forfait le spese di giudizio che riteniamo ci spettino, ma dopo che l’ospedale ha detto no abbiamo deciso di procedere – afferma la donna – ricorrendo in Cassazione per fare annullare la sentenza errata sul punto”.

“Ho pensato di mollare tutto – prosegue l’avvocato – ma sono andata avanti anche per le persone che, a differenza mia, non sono avvocati e probabilmente avrebbero accettato l’offerta iniziale. Non è giusto. Se si sbaglia, si deve chiedere scusa e andare incontro alla persona che ha subìto l’errore”.

Il risarcimento

L’ospedale, nel 1989, ha offerto 40 milioni di lire. L’avvocatessa rifiutò. Nel 1993 il tribunale di Bergamo ha stabilito che il danno biologico, patrimoniale e morale ammontava di 67.672.000 di lire. Poi, su ricorso di entrambe le parti, nel 1998 i giudici d’appello di Brescia hanno deciso al rialzo a 98.241.910 di lire. L’assicurazione ha pagato.

In seguito, in Cassazione, nel 2001, la sentenza è stata annullata perché il presidente non l’aveva firmata. Se ne occupò un’altra sezione d’Appello.

Siamo nel 2003, e c’è l’euro. A quel punto, per i giudici, il danno ammontava a 33.042 euro oltre a rivalutazione e interessi, voci che hanno fatto salire la somma a 110.000 euro.

Ma l’avvocato — anche grazie a una parziale decisione a suo favore della Cassazione, che nel 2008 rinviò di nuovo in Appello — ha chiesto una rivalutazione di quanto patito.

Vale a dire: 360 giorni di invalidità temporanea, 4 mesi di studio chiuso, gli esami medici, la paura di avere un brutto male, una lunga cicatrice e quel “distacco brutale dal figlio a 10 mesi dalla nascita per un ricovero urgente”.

Infine, nel 2014 i giudici hanno riconosciuto due stipendi e 8.267 euro di danno morale, in più. A restare aperto, adesso, è il capitolo che riguarda le spese legali e si tornerà in appello.

 

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