Coronaropatia trivasale e decesso del paziente (Tribunale Messina, sez. II, 14/11/2022, n.1904).

Coronaropatia trivasale e decesso del paziente per errati trattamenti sanitari.

Le eredi del paziente citano in giudizio l’Azienda Ospedaliera e il Centro Clinico Diagnostico, allo scopo di vederne accertata la responsabilità nella causazione della morte del congiunto, oltre al riconoscimento del diritto al risarcimento di tutti i danni, patrimoniali e non patrimoniali, subiti sia iure proprio che iure hereditatis.

Espongono che il paziente:

-in data 30.8.2009, avendo accusato dolori al torace, era stato ricoverato presso il presidio ospedaliero con diagnosi di “Infarto miocardico non Q. Cardiopatia ipertensiva. Diabete mellito. Vasculopatia aterosclerotica carotidea ed arti inferiori (rivascolarizzazione carotide sinistra ed iliaca destra)” e trattato con specifica terapia a base di antiaggreganti, ipoglicemizzanti, cardioaspirina e con eparinosimili (Clexane) a dosi piene;

-trasferito al P.O. convenuto in data 2.9.2009,  era stato sottoposto ad approfondite indagini cardiologiche di tipo diagnostico, le quali rilevarono “…tronco comune: stenosi del 20%. Arteria discendente anteriore: stenosi ai limiti di criticità multiple tratto medio. Arteria Circonflessa: stenosi critica ostiale lunga. Coronaria destra: occlusa con C.C. eterocoronarico. Conclusioni: Coronaropatia critica trivasale”;

-rilevata l’opportunità di sottoporre il paziente ad un “intervento di rivascolarizzazione miocardica chirurgica”, il 5.9.2009 l’A. era stato dimesso;

-successivamente, in data 7.9.2009, il paziente si era recato presso il Centro Clinico Diagnostico ove, effettuati gli esami radiografici (Rx torace) e clinici atti a valutare la coagulazione del sangue (tromboelastogramma), il 14.9.2009 era stato sottoposto ad intervento cardiochirurgico di “BAC x 2 DA (MIS) in cec normotermica e cardioplegia potassica ematica” e trasferito in terapia intensiva cardiologica;

-a causa di persistenti segni di scompenso con aritmia, severa difficoltà respiratoria e segni di incipiente compressione miocardica (pericardite), in data 17.9.2009 era stato nuovamente sottoposto ad intervento chirurgico e, poco dopo, a seguito di un ennesimo episodio di fibrillazione ventricolare, ne era stato dichiarato il decesso (dal diario medico delle ore 14:50 “improvvisa fibrillazione ventricolare, si effettua MCE e defibrillazione 200J. Assenza di risposta alle manovre rianimatorie. EXITUS”).

Il CTU ha concluso: “…Al momento dell’accesso al P.O. era affetto da NSTEMI, fenomeno ischemico miocardico senza alterazioni ecg-grafiche del tratto ST, sotteso a coronaropatia trivasale… In esito al primo ricovero, veniva trasferito presso il P.O. di Messina dove veniva sottoposto a coronarogafia e successivamente veniva posta indicazione a rivascolarizzazione attraverso BPAC; per tale intervento si determinava trasferendosi presso la Casa di Cura, dove veniva sottoposto all’intervento cardiochirurgico, in esito al quale, nei giorni successivi, decedeva…(..).. Non si riconoscono errori diagnostici nella gestione del paziente… In relazione al primo ricovero presso il P.O. Piemonte, può ritenersi sussistente profilo di imprudenza, in relazione al tardivo trasferimento del paziente presso il secondo presidio ospedaliero dotato di laboratorio di Emodinamica. Tale colposo approccio assistenziale, tuttavia, non risulta aver influito negativamente sul successivo decorso clinico, posto che il paziente, anche al termine del secondo ricovero, presentava condizioni cliniche ed emodinamiche soddisfacenti. Al contrario, appare possibile ritenere non adeguato, in termini di gestione assistenziale, l’esecuzione, presso la Casa di Cura , di cardioplegia non per via retrograda (dal seno coronarico), maggiorente utile in caso di stenosi critiche, specie se ostiali. Tale approccio potrebbe essere, anche escludendo ulteriori cause, alla base della severa ipocinesia globale e delle ripetute alterazioni aritmiche riscontrate al termine dell’atto cardiochirurgico, che sostanzialmente rappresentano l’antecedente causale sufficiente a provocare il decesso… Le strutture sanitarie erano dotate di apparecchiature sufficienti per la gestione del paziente, anche in ambio cardiochirurgico… Per quanto complessa, l’attività cardiochirurgica espletata sul paziente. appariva routinaria… Nel caso in esame appare errata la gestione, anche secondo le Linee Guida e la bibliografia citata, dei sanitari del primo presidio ospedaliero per non aver indirizzato immediatamente il paziente ad angioplastica primaria; tale comportamento, come già ricordato appare comunque non correlato con l’evento morte. L’esecuzione di cardioplegia per via anterograda, seppur condivisa dalle Linee Guida, non appariva comunque la più indicata, a fonte della possibilità di cardioplegia per via retrograda, in presenza di coronaropatia trivasale con stenosi critica ostiale dell’arteria circonflessa, con stenosi del tronco comune e con occlusione della coronaria destra… si ritiene che il decesso dell’A. sia correlare alla coronaropatia trivasale e alla non condivisibile esecuzione di cardioplegia non per via retrograda”.

Ciò accertato, in ossequio al regime previgente, che il rapporto contrattuale tra il paziente e la struttura sanitaria o il medico esplica i suoi effetti tra le sole parti del contratto, sicché la responsabilità contrattuale può essere fatta valere dai congiunti dell’assistito iure hereditatis, senza che questi ultimi, invece, possano agire a titolo contrattuale iure proprio per i danni da loro patiti.

Pertanto l’azione iure proprio degli eredi del paziente si inquadra necessariamente nella responsabilità di natura extracontrattuale, atteso che questi ultimi non possono essere nella specie qualificati come “terzi protetti dal contratto”.

Le attrici, eredi del paziente deceduto, hanno agito sia iure hereditatis, per ottenere il ristoro dei danni morali e biologici eventualmente subiti dalla vittima, sia iure proprio, per ottenere il risarcimento dei danni da perdita del rapporto parentale.

Per quanto concerne l’azione proposta jure proprio per la perdita del rapporto parentale, il termine prescrizionale è di cinque anni.

Nella fattispecie in esame, potendosi ipotizzare il delitto di omicidio colposo nel contesto di una valutazione incidenter tantum eseguita con gli strumenti probatori ed i criteri propri del procedimento civile (SS.UU. 27337/2008), il termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno applicabile è quello previsto per il detto reato, cioè sei anni.

Applicando tali principi, tenuto conto che l’evento-morte si è verificato in data 17.9.2009, che il termine prescrizionale è di 6 anni e la decorrenza coincide con il decesso del congiunto, accertato altresì che il primo atto interruttivo è ascrivibile all’instaurazione del giudizio di cui all’art. 696 bis c.p.c., viene dichiarata l’intervenuta prescrizione del diritto azionato iure proprio per il danno da perdita del rapporto parentale.

Per quanto concerne il danno patito jure proprio dal paziente, risulta dimostrato che le condizioni di salute si sono aggravate in occasione dell’intervento chirurgico eseguito in data 14.9.2009 dai sanitari del Centro Clinico, in quanto la pratica della cardioplegia anterograda (e non retrograda) ha rappresentato l’antecedente causale idoneo a determinare – unitamente alla patologia sofferta dall’A. (“coronaropatia trivasale”) – la severa ipocinesia globale e le ripetute alterazioni aritmiche che sostanzialmente hanno condotto al decesso del paziente.

Tenuto conto dei profili di inadempimento contestati dalle attrici e dell’assenza di prova contraria da parte del Centro Clinico, che non ha dimostrato di avere correttamente adempiuto, viene dichiarata la responsabilità di tale struttura sanitaria, essendo evidente come la condotta dei sanitari abbia dato origine al decorso causale che ha alterato le condizioni di salute del paziente, conducendolo progressivamente alla morte.

Pertanto, viene liquidato il danno biologico terminale, sussistente per il tempo della permanenza in vita del paziente.

Avv. Emanuela Foligno

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