La Corte di Cassazione, Sezione Terza Civile, con la sentenza n. 8037 depositata il 21 aprile 2016 (Dott. SALME’ Giuseppe – Presidente – Dott. ROSSETTI Marco – rel. Consigliere), ha chiarito che, in caso di morte a seguito di sinistro stradale, al convivente more uxorio della madre della vittima può essere risarcito il danno tanatologico solo se viene provata una convivenza duratura.
Questi i fatti.
In un sinistro stradale restano coinvolti i due figli di una donna: uno perde la vita e l’altro rimane ferito.
La madre delle due vittime, il fratello di esse, il convivente della madre delle vittime e lo zio delle vittime convennero dinanzi al Tribunale il responsabile del sinistro e il suo assicuratore della r.c.a., chiedendone la condanna al risarcimento dei danni rispettivamente patiti.
Il giudice di prime cure accoglie la domanda, mentre la Corte territoriale riduce l’importo del danno patrimoniale liquidato dal primo giudice e la compagnia assicuratrice propone, pertanto, ricorso per cassazione.
Ebbene, gli Ermellini accolgono il primo motivo di ricorso con il quale la ricorrente lamentava, in particolare, la violazione dell’art. 2059 c.c., poiché il giudice di secondo grado aveva risarcito il danno tanatologico al convivente della madre della vittima, che non aveva, invece, titolo per pretendere il risarcimento del danno non patrimoniale. Da qui la violazione dell’art. 2059 c.c., che consente il risarcimento del danno non patrimoniale nei soli casi previsti dalla legge.
La Suprema Corte osserva che il “danno” in senso giuridico consiste nella perdita derivante dalla lesione d’una situazione giuridica soggettiva “presa in considerazione dall’ordinamento” alla quale una o più norme apprestino una qualsiasi forma di tutela.
Pertanto, se una situazione o rapporto di fatto non è tutelato in alcun modo dall’ordinamento, la lesione di esso non costituisce un danno risarcibile, ed in base a tanto la Corte di Cassazione ha negato, ad esempio, la risarcibilità del danno da lesione della “felicità” (Sez. U, Sentenza n. 26972 del 11/11/2008, Rv. 605493) o da perdita del “tempo libero” (Sez. 3, Sentenza n. 21725 del 04/12/2012, Rv. 624249). E tale regola vale sia per il danno patrimoniale che per quello non patrimoniale.
Osserva la Cassazione che “il danno non patrimoniale consiste nella violazione di interessi della persona non suscettibili di valutazione economica (Sez. U, Sentenza n. 26972 del 11/11/2008, Rv. 605489). Pertanto, in applicazione della regola ricordata al precedente, in tanto sarà ipotizzabile un danno non patrimoniale non risarcibile, in quanto:
(a) sia stato leso un interesse non patrimoniale della persona;
(b) l’interesso leso sia “preso in considerazione” dall’ordinamento.
In aggiunta a queste due condizioni, la risarcibilità del danno non patrimoniale esige altresì che:
(c) ricorra una delle ipotesi in cui la legge consente il risarcimento del danno non patrimoniale ( art. 2059 c.c. );
(d) la lesione dell’interesse sia stata di entità tale da superare la “soglia minima” di tollerabilità (Sez. 3, Sentenza n. 16133 del 15/07/2014, Rv. 632536; Sez. 3, Sentenza n. 7256 del 11/05/2012, Rv. 622383; Sez. L, Sentenza n. 5237 del 04/03/2011, Rv. 616447; Sez. 3, Sentenza n. 2847 del 09/02/2010, Rv. 611428; Sez. U, Sentenza n. 26972 del 11/11/2008, Rv. 605493).
Per la Suprema Corte il rapporto affettivo tra il figlio del partner e il compagno del suo genitore può dirsi rilevante per il diritto quando si inserisca in quella rete di rapporti che sinteticamente viene qualificata come famiglia di fatto. Ed è solo in tale ipotesi che può dirsi costituita una “formazione sociale” ai sensi dell’art. 2 Cost. , come tale meritevole di tutela anche sotto il profilo risarcitorio.
Ma una famiglia di fatto non sussiste solamente per il fatto che alcune persone convivano, in quanto la sussistenza della stessa può essere desunta solo da una serie cospicua di indici presuntivi quali la risalenza della convivenza, la diuturnitas delle frequentazioni, il mutuum adiutorium, l’assunzione concreta, da parte del genitore de facto, di tutti gli oneri, i doveri e le potestà incombenti sul genitore de iure.
Tutti questi principi possono essere tratti, oltre che dalla costante giurisprudenza della Suprema Corte, anche da quella costituzionale e da quella della Corte Europea dei diritti dell’uomo.
In particolare, quest’ultima , nel decidere come dovesse interpretarsi la nozione di diritto alla vita familiare di cui all’art. 8 CEDU, da un lato ha affermato che in tale nozione rientrano anche i rapporti di fatto tra un minore e il compagno del genitore di quegli (Corte EDU, 19.2.2013, n.n. c. Austria, 96), e dall’altro lato ha aggiunto che “la nozione di “vita familiare” ai sensi della su citata norma può comprendere relazioni familiari de facto, purché ricorrano un certo numero di elementi, come ad esempio il tempo vissuto insieme, la qualità delle relazioni e il ruolo assunto dall’adulto nei confronti del bambino” (Corte EDU CEDU 27.4.2010, Moretti e Benedetti c. Italia, 48).
La sentenza della Corte d’Appello viene criticata dagli Ermellini poiché non ha preso in considerazione nessuno dei su citati elementi, limitandosi a statuire che tra il convivente more uxorio del genitore della vittima e quest’ultima sussistesse una relazione familiare di per sé, in virtù dell’accertamento del solo rapporto di convivenza tra l’attore e la madre della vittima.
Da tanto, secondo la Cassazione deriva la falsa applicazione dell’art. 2059 c.c. , consistita nell’avere liquidato un danno non patrimoniale senza previamente accertare se sussistessero tutte le condizioni richieste dalla legge.
La Suprema Corte ha pertanto cassato con rinvio la sentenza affermando il seguente principio di diritto:
La sofferenza provata dal convivente more uxorio, in conseguenza dell’uccisione del figlio unilaterale del partner, è un danno non patrimoniale risarcibile soltanto se sia dedotto e dimostrato che tra la vittima e l’attore sussistesse un rapporto familiare di fatto, che non si esaurisce nella mera convivenza, ma consiste in una relazione affettiva stabile, duratura, risalente e sotto ogni aspetto coincidente con quella naturalmente scaturente dalla filiazione.
In base a tanto, per la Suprema Corte, il giudice del rinvio, nell’accertamento della convivenza di fatto, non dovrà limitarsi, come, invece, ha fatto la Corte territoriale, a dedurne l’esistenza esclusivamente dal rapporto more uxorio tra la madre della vittima e il suo compagno, ma dovrà concretamente accertare, anche attraverso il ricorso alla prova presuntiva, se la persona che domanda il risarcimento abbia concretamente assunto il ruolo morale e materiale di genitore, ad esempio dimostrando di avere condiviso con la compagna le scelte educative nell’interesse della minore, ovvero di avere contribuito a fornirle i mezzi per il mantenimento dello stesso.

Avv. Maria Teresa Luca

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