La prassi del reparto di cardiologia era quella di effettuare diagnosi provvisorie ai pazienti, rinviarli al Pronto Soccorso, in attesa dei risultati delle analisi ematochimiche ed infine, decidere se trattenere o dimettere il paziente

Ma questa prassi non salva un cardiologo e il medico del Pronto Soccorso. Per i giudici della Cassazione: “solo la diagnosi definitiva escluda l’omissione diagnostica, consentendo di differenziare i sintomi ed i segni comuni da quelli specifici della patologia in corso di identificazione, fino ad individuare quale sia quella corretta”.

La vicenda

Specialista in cardiologia e medico del Pronto Soccorso condannati in concorso per omicidio colposo ai danni di un paziente colpito da infarto “improvviso”.
Per imprudenza, negligenza e imperizia, questi non avevano diagnosticato l’infarto in atto, nonostante il dolore toracico, le risultanze ematochimiche ed elettrocardiografiche, così dimettendo il paziente con codice giallo.
Ma dopo neppure tre giorni l’uomo decedeva presso la propria abitazione “per rottura del cuore, conseguente ad un infarto miocardico acuto”.
Era giunto in Pronto Soccorso avvisando dolori sospetti che avrebbero dovuto far presumere un infarto in corso. Ma per i medici, non vi erano segni di cardiopatia acuta in atto. Eppure, al triage era stata segnalata una familiarità per infarto e pressione arteriosa elevata nonché gastrite in cura con gastroprotettori; senza contare degli ulteriori fattori di rischio quali il fatto che il paziente era un ex fumatore, allo stato iperteso e con forte dolore toracico.
In primo grado e in appello la condanna dei due medici fu inevitabile.
La corte territoriale aveva escluso che la morte fosse conseguita ad un fatto improvviso ed imprevedibile o, sopravvenuto per cause del tutto indipendenti rispetto alle condizioni del paziente, come accertate tre giorni prima dal cardiologo e dal medico del pronto soccorso, capaci di interrompere il nesso causale fra la condotta degli imputati e l’evento nefasto.

Il ricorso per Cassazione

Sulla vicenda si è pronunciata anche la Quarta Sezione Penale della Cassazione, a seguito del ricorso presentato rispettivamente dal cardiologo e dal medico del pronto soccorso.
Ebbene, il primo adduceva a sua difesa, che la sua diagnosi sulle condizioni attuali del paziente non aveva natura definitiva e che era prassi dell’ospedale, quella di rinviare i pazienti sottoposti a consulenza cardiologica al Pronto Soccorso, in assenza della possibilità fisica di trattenerli in reparto per la mancanza di una sala di osservazione. Cosicché in attesa degli accertamenti prescritti, questi erano trattenuti in Pronto Soccorso; d’altra parte competeva al medico Pronto Soccorso eseguire la verifica delle analisi.
Se così fosse la colpa ritenuta dai giudici di merito in ordine alla responsabilità dello specialista cardiologo, andrebbe esclusa laddove si accertasse che effettivamente la prassi del reparto di cardiologia era quella di effettuare la consulenza ed emettere una prima diagnosi non definitiva.
Detto in altri termini, la non definitività della diagnosi escluderebbe sul nascere un giudizio di rimproverabilità del comportamento tenuto dal cardiologo, posto che il paziente era stato dimesso da altro medico, cui peraltro, competeva la verifica degli esami ematochimici, e posto che il primo, non ebbe più, la possibilità di rivedere il paziente, ma neppure quella di trattenerlo presso il proprio reparto, per consultare le analisi disposte dal pronto soccorso ed eventualmente ricoverarlo.

Ma in realtà per i giudici della Cassazione tale impostazione è fuorviante e del tutto errata.

Non è tanto la definitività o meno della diagnosi a poter fondare la dichiarazione di responsabilità del medico specialista quanto il fatto che egli, di fronte ad un paziente con sintomi inequivocabili, familiarità all’infarto, iperteso, e con forte dolore toracico preferì rinviarlo al Pronto Soccorso piuttosto che trattenerlo presso il suo reparto di cardiologica e attendere le analisi.
Come correttamente osservato dai giudici di merito, senza la previa verifica delle analisi, la diagnosi non poteva neppure essere formulata.
Restano, pertanto, prive di sostegno logico le precisazioni addotte dalla difesa in materia di non definitività della diagnosi.
Ed invero, “la formulazione di una diagnosi provvisoria, fondata su dati incompleti, non può essere assunta dal medico come modus operandi -ancorché essa sia tollerata o sinanco incoraggiata dalla struttura ospedaliera che non si occupa di coordinare l’operato dei diversi medici e dei diversi reparti – se ad essa non si accompagni una procedura di completamento diagnostico che assicuri una tempestiva diagnosi, inequivocabilemente definitiva, fondata su tutti gli accertamenti svolti, non appena consultabili”.
In questo senso, la sentenza impugnata correttamente e correntemente ha considerato priva di effettiva rilevanza la prassi interna al reparto e di nessuna importanza la prova della sua sussistenza ricavabile dalla documentazione relativa ad altro paziente ricoverato per infarto nella stessa giornata, per cui erano state eseguite identiche modalità diagnostiche: diagnosi provvisoria e rinvio al pronto soccorso.
Cosicché, concludono i giudici della Cassazionesolo la diagnosi definitiva escluda l’omissione diagnostica, consentendo di differenziare i sintomi ed i segni comuni da quelli specifici della patologia in corso di identificazione, fino ad individuare quale sia quella corretta. La mancata considerazione degli elementi tipici, pure oggetto di ricerca diagnostica, costituisce di per sé condotta rimproverabile, quando siffatti elementi siano quelli che secondo le linee guida debbano essere tenuti in considerazione per effettuare una corretta diagnosi”.

La redazione giuridica

 
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