Dolo o imperizia: spesso, leggendo una sentenza, mi mi sorge questo dubbio. Perchè, spessissimo, in Appello o in Cassazione i Giudici vengono “bocciati”?

E’ possibile che certi principi non sono uguali per tutti? Oppure, anche in diritto prevale il “sentito dire”? Si, perchè, altrimenti si dovrebbe pensare male!

Non infrequentemente le concause naturali giocano un brutto scherzo ai danneggiati in quanto si vedono ridotto il risarcimento anche quando il danno conseguenza è il decesso e non un danno biologico differenziale.

Non volendo fare riferimento ai contenuti delle sentenze della Suprema Corte di Cassazione ma avvalendoci della sola logica ripercorriamo i seguenti principi:

  • l’autore del fatto illecito deve risarcire esclusivamente le conseguenze che da esso derivano;
  • le condizioni preesistenti non escludono il nesso di causa ad eccezione di quando da sole lo causano;
  • il nesso di causa tra danno evento e danno conseguenza va provato con un ragionamento controfattuale.

Ci sarebbe qualche altro principio da enunciare ma questi tre li contengono tutti (per deduzione logica)

Tenuto a mente quanto suddetto, una volta provato il nesso di causa tra inadempimento e decesso, che senso ha ridurre il risarcimento del danno sol perchè il paziente deceduto aveva delle comorbilità che “hanno concausato al 46% il decesso” se senza l’inadempimento la morte non si sarebbe verificata?

Sarebbe come dire che causare la morte ad un soggetto anziano che “naturalmente” non è in perfetta forma fisica significa risarcire agli eredi non più il cento, ma una frazione di del danno morale. In sintesi, affermare ciò significherebbe frazionare il danno al tessuto familiare (quindi la sofferenza delle vittime secondarie) per il sol motivo che il familiare non era più un “campione di salute”.

Dolo o imperizia o ragionamento per sentito dire?

Confondere il maggior danno biologico (danno differenziale) con il danno da morte è veramente inconcepibile. Ma riportiamo parte della sentenza criticata (ma non è l’unica purtroppo) e poi entriamo nel merito.

“…In applicazione dei principi richiamati, le conclusioni del CTU, sopra riportate, possono essere condivise nella parte in cui ha ritenuto che con elevata probabilità la scelta della tipologia di intervento ha concorso a cagionare imperitamente il decesso della II in misura di poco superiore al 50% e, considerata la normale incidenza, nei limiti del 46%, delle altre concause, come individuate dal CTU (pag. 10), la responsabilità della struttura convenuta va limitata al 54%. Le considerazioni svolte permettono, dunque, di accogliere la domanda dell’attrice, riconoscendo la responsabilità della convenuta per la verificazione del decesso della II nei limiti del 54%, quindi attribuendo alle altre concause l’incidenza del 46%. La convenuta va pertanto condannata al risarcimento dei danni subiti dagli attori, nei limiti indicati, nella misura di seguito stabilita…

… Le somme indicate vanno decurtate del 46% in considerazione delle concause che hanno inciso sul decesso; dunque, ai figli spetta la somma di € 91.800,00 ciascuno e ai nipoti la somma di € 13.500,00 ciascuno, importi all’attualità, oltre interessi come sopra specificato, che la convenuta è condannata a versare ai ricorrenti…”.

Dolo o imperizia o “tutta colpa dell’assenza del giudizio controfattuale”?

Il giudice ha speso fiumi di parole sul nesso di causalità (e poteva risparmiarselo!) e poi sulla liquidazione del danno 4 righe immotivate e illogiche.

Entriamo nel merito dell’argomento e ragioniamo con logica e cultura del diritto.

Con la sola logica si può affermare il principio che l’autore del fatto illecito deve risarcire sole le conseguenze esclusive del suo comportamento (illecito), tale valutazione va fatto secondo un giudizio controfattuale, ossia omettendo il comportamento illecito se il decesso sarebbe avvenuto.

Ragionamento per il quale non bisogna essere giuristi medici d’eccezione.

Se la vogliamo raccontare meglio serviamoci della sentenza del Cons. Marco Rossetti (Cassazione civile sez. III – 11/11/2019, n. 28986) che pur parlando di un maggior danno spiega chiaramente la regola del diritto che, quindi, può essere facilmente applicata al caso morte:

“…Se la preesistenza di malattie o menomazioni non ha concausato la lesione, nè ha aggravato o è stata aggravata dalla menomazione sopravvenuta (c.d. menomazioni “coesistenti”), anche in questo caso di essa non dovrà teneri conto nella liquidazione del danno, e tanto meno nella determinazione del grado di invalidità permanente.

La preesistenza di menomazioni, infatti, quando queste non abbiano concorso a causare la lesione iniziale, può teoricamente rilevare solo sul piano della causalità giuridica (art. 1223 c.c.), vale a dire della delimitazione dei danni imputabili eziologicamente al responsabile.

Ma la causalità giuridica va accertata col criterio controfattuale: vale a dire stabilendo cosa sarebbe accaduto se l’infortunio non si fosse verificato.

Applicando il criterio controfattuale, non potranno darsi che due eventualità: o le forzose rinunce patite dalla vittima in conseguenza del fatto illecito sarebbero state identiche, quand’anche la vittima fosse stata sana prima dell’infortunio; oppure quelle conseguenze dannose sono state amplificate dalla menomazione preesistente. Nel primo caso la menomazione preesistente sarà giuridicamente irrilevante…”.

Se i giudici non comprendono questi semplici concetti (che sono pane quotidiano della loro attività) non c’è da stare sereni, ma per fortuna che giudici del genere non sono poi tanti!

Mi pongo un ultima domanda: come mai i medici se sbagliano pagano e i giudici non vengono sottoposti alla gogna alla stessa maniera? La vita dell’uomo è meno importante del diritto del cittadino?

Lascio a voi ogni altra riflessione mentre continuo a riflettere se trattasi di dolo o imperizia.

Dr. Carmelo Galipò

(Pres. Accademia della Medicina Legale)

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