Fallimento di implantologia dentaria (Cassazione civile, sez. III, dep. 16/08/2023, n.24695.)

Non corretta esecuzione dell’intervento di implantologia dentaria è quanto viene contestato dalla paziente.

I tre Odontoiatri vengono chiamati a giudizio dinanzi al Tribunale di Roma per la asserita non corretta esecuzione delle cure dentistiche prestate e per la restituzione delle somme corrisposte agli stessi.

A fondamento della propria domanda, l’attrice deduceva la sussistenza di colpa professionale per omissione di adeguate informazioni in relazione all’intervento chirurgico di implantologia eseguito, e per esecuzione di un trattamento non voluto che la costringeva ad un intervento d’urgenza per rimuovere tre degli impianti ossei eseguiti dai convenuti.

Tutti i convenuti contestavano gli addebiti di responsabilità.

Il Tribunale di Roma, accoglieva parzialmente la domanda e condannava i tre Odontoiatri in solido al risarcimento del danno in favore di parte attrice, con manleva da parte delle società assicuratrici. Inoltre, veniva dichiarata la risoluzione del contratto di prestazione professionale stipulato tra i convenuti e l’attrice, con conseguente restituzione delle somme versate.

La Corte d’Appello di Roma, preliminarmente dichiarava il difetto di legittimazione di uno dei tre Odontoiatri, quanto alla posizione degli altri due professionisti, la Corte di merito – rilevato che il Tribunale aveva accolto la domanda di risarcimento del danno limitatamente all’intervento di posizionamento di tre impianti (i quali avevano dovuto essere poi rimossi e riposizionati da altro professionista), – ha evidenziato che la causa che aveva portato alla perdita dei tre impianti era stata una complicanza infettivo-infiammatoria successiva all’intervento di posizionamento degli stessi impianti e che tuttavia il CTU non aveva potuto accertare la causa di tale infiammazione per l’assenza agli atti dell’esame diagnostico (tc denta-scan) eseguito immediatamente prima dell’intervento di rimozione degli impianti da parte di altro professionista, e perché le cure effettuate dalla paziente avevano del tutto modificato lo stato delle cose.

Secondo la Corte, poiché era accertato che il menzionato esame diagnostico fosse nella disponibilità dell’attrice, per il principio di vicinanza della prova, doveva ritenersi a suo carico dimostrare il nesso causale tra l’intervento di posizionamento degli impianti e l’osteite insorta successivamente, che aveva portato alla necessità della loro rimozione. Pertanto, non essendo stato tale onere assolto, andava respinta la domanda per i profili attinenti alla non corretta esecuzione dell’intervento chirurgico.

Sulla mancata informazione, i Giudici di appello hanno ritenuto la circostanza irrilevante, mancando la prova che l’osteite fosse una conseguenza dell’intervento subito e comunque tenuto conto che l’attrice non aveva allegato che, ove informata dei rischi di complicanze e fallimenti, non avrebbe eseguito l’intervento concretamente effettuato, né aveva indicato le alternative che avrebbero potuto seguire gli Odontoiatri per evitare il formarsi dell’osteite mascellare.

La paziente impugna la decisione in Cassazione.

Per quanto qui di interesse, con il quinto ed il sesto motivo la paziente censura il capo della sentenza che ha escluso la responsabilità professionale dei sanitari ritenendo non provato il nesso causale tra l’operato degli stessi e il danno (l’infiammazione che ha comportato la rimozione degli impianti e il loro riposizionamento), e irrilevante la mancata informazione circa i possibili rischi dell’intervento chirurgico.

Secondo la tesi della paziente, la Corte d’appello avrebbe erroneamente applicato i principi relativi alla distribuzione dell’onere della prova, in quanto il CTU aveva accertato il nesso eziologico tra la condotta dei sanitari e i danni (il ricovero e la rimozione chirurgica degli impianti), mentre ciò che era rimasto senza prova era l’impossibilità di adempiere (ovvero l’origine dell’infiammazione per causa non imputabile), il cui onere probatorio ricadeva sugli Odontoiatri.

La Corte d’appello, inoltre, avrebbe errato nell’attribuire rilevanza assorbente alla mancanza dell’esame diagnostico, disconoscendo tutti gli altri elementi da cui sarebbe emerso, in applicazione del principio del più probabile che non, che la causa  del fallimento dell’intervento era da riconnettersi all’errato posizionamento degli impianti.

Le doglianze sono fondate.

La Corte d’appello ha argomentato che la rimozione dei tre impianti fosse stata determinata da una complicanza infettivo-infiammatoria la cui riconducibilità causale alle cure effettuate sarebbe “rimasta incerta” perché la paziente si era sottoposta a cure successive, presso altri Sanitari, che avevano modificato lo stato delle cose e perché la stessa attrice non aveva depositato in atti l’esame strumentale effettuato prima dell’intervento di rimozione, esame che era nella sua disponibilità.

Ebbene, tale motivazione non si confronta con le risultanze della CTU, che vengono interamente ignorate nella parte in cui il Consulente  afferma testualmente “e’ presente il rapporto causale tra l’operato dei sanitari e i suddetti postumi”, sostenendosi in tal modo, su basi scientifiche, che l’insorgenza dell’infezione era stata conseguenza dell’operato dei medici, in consonanza, per altro verso, con la CTP con la quale il perito di parte attribuiva l’osteite mascellare ad un “malposizionamento fixture”.

I Giudici di Appello hanno erroneamente argomentato di una “incertezza della riconducibilità causale alle cure” fondata sull’illogico ragionamento per il quale la ricorrente si era sottoposta a successive cure che avevano modificato lo stato preesistente, così addossando alla stessa danneggiata un onere probatorio avente ad oggetto “il mancato deposito in atti dell’esame strumentale effettuato prima dell’intervento di rimozione, esame che era nella sua disponibilità”. Tale motivazione è contraddittoria poiché su tale assunto sarebbe stato sufficiente fondare una pronuncia di rigetto della domanda senza necessità di disporre una Consulenza d’ufficio funzionale all’accertamento di quei medesimi fatti.

Per quanto concerne la lamentata mancata informazione, la decisione della Corte d’appello, di escludere la sussistenza di profili di responsabilità dei sanitari derivanti dalla violazione dell’obbligo di ottenere il consenso informato, è basata sulla mancata allegazione e prova, da parte di quest’ultima, del fatto che la stessa non avrebbe eseguito l’intervento, né indicato le alternative che avrebbero potuto seguire i medici.

Tuttavia, risulta dagli atti che la paziente, sin dall’atto di citazione, aveva allegato che, se fosse stata correttamente informata, non avrebbe mai prestato il proprio consenso ad un intervento del tipo di quello concretamente effettuato, che prevedeva l’inserimento in simultanea di più corpi estranei nell’osso.

In sostanza la Corte di merito non ha considerato elementi probatori di carattere presuntivo che, qualora esaminati, avrebbero potuto determinare una decisione in senso diverso. In particolare, l’occupazione lavorativa del marito della paziente, che richiedeva un’intensa attività di relazione sociale e frequenti viaggi all’estero, era circostanza che avrebbe dovuto far deporre, quantomeno in via presuntiva, che la ricorrente avrebbe rifiutato di sottoporsi alle cure effettuate, qualora fosse stata correttamente informata degli elevati rischi di complicanze, i cui effetti pregiudizievoli sulla vita sociale sono di esperienza comune.

Ciò appare tanto più evidente, sul piano della prova presuntiva – cui i resistenti non hanno mai offerto convincente prova contraria – se si tiene conto che, secondo quanto afferma lo stesso CTU, l’intervento di implantologia eseguito non era l’unico percorribile, essendo possibile scegliere tipologie riabilitative diverse che, anche se meno efficaci, sarebbero state meno rischiose.

La Corte accoglie il ricorso nei limiti indicati, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’appello di Roma in diversa composizione, assorbiti i ricorsi incidentali.

Avv. Emanuela Foligno

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