Con la sentenza del 20 aprile 2016 n. 7766 (Rel. Travaglino), la terza sezione della Corte di Cassazione risolve una importante controversia in merito ad una richiesta di risarcimento danni, ed al contempo chiarisce come risulti possibile, in relazione alla peculiarità del caso concreto, provvedere alla maggiorazione del danno biologico fino al 30% in più rispetto ai parametri tabellari previsti per la liquidazione.

La vicenda trae origine da un contenzioso, sorto innanzi al Tribunale Civile di Bologna, relativo ad un sinistro stradale nel quale il giovane danneggiato usciva vittorioso, mentre la compagnia assicurativa dichiarata soccombente veniva condannata al risarcimento dei gravissimi danni subiti da quest’ultimo.

La società assicuratrice impugnava la sentenza, ma, la Corte di Appello di Bologna rigettava fermamente il gravame.
Il collegio di secondo grado osservava, nel confermare la sentenza di primo grado, che la liquidazione del danno non patrimoniale ad opera del Tribunale, discostandosi motivatamente dai parametri risarcitori indicati nelle tabelle milanesi, pur essendo le stesse riconosciute ordinariamente applicabili dai giudici di merito e dalla stessa Cassazione, trovava ragione nella particolarità ed eccezionalità del caso.

Per cui, sulla base delle stesse indicazioni contenute nelle precedenti tabelle era stato possibile discostarsi nel giudizio dai relativi criteri di quantificazione matematica, rappresentate:
quanto alla voce di danno biologico, rettamente intesa come compromissione delle attività dinamico-relazionali del danneggiato, dalla particolare rilevanza, tra l’altro, del danno estetico, tale da incidere sensibilmente sulla esistenza del ricorrente sul piano delle relazioni esterne, tanto più in ragione della giovane età del danneggiato;
quanto al pregiudizio psichico, altrettanto rettamente intesto come danno morale, dalle sofferenze conseguenti ai vari interventi chirurgici cui egli era stato costretto a causa della negligenza altrui, ed alla irrimediabile compromissione del suo aspetto fisico e del suo stato di salute.

La compagnia assicurativa non si arrendeva neppure dinanzi a questa seconda sconfitta, pertanto proponeva ricorso innanzi alla Corte di Cassazione.

La sentenza del 20 aprile 2016 è stata molto più di una semplice conferma di una sentenza di appello. Con tale decisione, infatti, la Suprema Corte ha sconfessato la tesi della “unicità del danno biologico” considerato un pilastro del nostro sistema risarcitorio.

Il ragionamento della Corte è ad ampio spettro, poiché considera che anche nell’ambito delle lesioni micro-permanenti resta ferma la distinzione concettuale tra sofferenza interiore ed incidenza sugli aspetti relazionali della vita del soggetto.

A supportare quanto sopra sovvengono sia l’art. 139 che l’art. 138 del codice delle assicurazioni.
Nel codice delle assicurazioni, infatti si ravvisa una definizione di danno biologico identica per ciò che concerne il suo aspetto morfologico (lesione medicalmente accertabile), ma diversa in quello funzionale discorrendo la seconda delle norma sopra citate di “lesione che esplica un’incidenza negativa sula attività quotidiana e sugli aspetti dinamico-relazionale del danneggiato”.

In particolare, la Suprema Corte si sofferma, poi, sulla distinzione tra i diversi danni correlati al “dolore interiore” (danno morale) ed alla “alterazione della vita quotidiana” (c.d. danno esistenziale o danno alla vita di relazione).
Viene, pertanto, riconosciuta l’essenza del danno non patrimoniale, così come qualificata nelle sentenze del 2008 della Cassazione (Cass. SS.UU. n. 26792 del 11.11.2008) ed in quella della Corte Costituzionale sulla legittimità dell’art. 139 del codice delle assicurazioni (Corte Cost. n. 235 del 16.10.2014) che, per le lesioni di lieve entità, comunque consente l’aumento della liquidazione del danno biologico, vale a dire la c.d. personalizzazione, seppure con la limitazione ex lege del danno morale (sino ad un quinto).

Secondo quanto afferma la Corte di Cassazione, la pronuncia della Corte Costituzionale sulla risarcibilità del danno biologico da micro-permanente avrebbe definitivamente sconfessato al “tesi predicativa della unicità del danno biologico”: già all’interno del sistema delle micro-permanenti resterebbe ferma la distinzione tra “sofferenza interiore” (danno morale) ed “incidenza sugli aspetti relazionali della vita del soggetto” (danno esistenziale o alla vita di relazione, correlato e conseguente al danno biologico). Per contro, dalla lettura dell’art. 138 del codice delle assicurazioni rimarrebbe confermata la distinzione tra danno biologico (personalizzabile con aumenti sino al 30% in ragione della proiezione dinamica nella vita di relazione, vale a dire del danno esistenziale) e danno morale (sofferenza interna).

L’importanza di tali indicazioni si deve anche alla circostanza che, come prevede la Legge Balduzzi, le disposizioni in questione si applicano anche alla responsabilità medica, in luogo delle più generose tabelle milanesi, seppur controversa rimane l’ applicabilità retroattiva: “Il danno biologico conseguente all’attività dell’esercente della professione sanitaria è risarcito sulla base delle tabelle di cui agli artt. 138 e 139 del D. Lgs. 7 settembre 2005 n. 209, eventualmente integrate con la procedura di cui al comma 1 del predetto art. 138 e sulla base dei criteri di cui ai citati articoli, per tener conto delle fattispecie da esse non previste, afferenti all’attività di cui al presente articolo”(art. 3 co. 3 , D.L. 158/2012 c.d. “Balduzzi”).

In buona sostanza, la Corte di Cassazione, traendo spunto dalle scienze psicologiche e psichiatriche, secondo cui ogni individuo è, al contempo, relazione con se stesso e rapporto con l’altro da sé, insiste sulla duplice dimensione della sofferenza umana, e sulla distinzione ontologica tra le conseguenze di tipo interiore (danno morale) e quelle di tipo relazionali (danno esistenziale), di cui è possibile affermare l’autonoma risarcibilità: queste ultime, infatti, altro non sarebbero che il danno alla vita di relazione, o esistenziale, conseguente al danno biologico.

Pertanto, secondo quanto affermato dalla Suprema Corte, se le tabelle del danno biologico offrono parametri generali di liquidazione, l’eventuale aumento percentuale sino al 30% avverrà in funzione della dimostrata peculiarità del caso concreto in relazione al pregiudizio arrecato alla vita di relazione del soggetto.

In relazione alla patita sofferenza interiore dovrà essere svolta altra e diversa indagine, senza applicare alcun automatismo nella dinamica risarcitoria.

Infatti, un evento destinato ad incidere sulla vita di una persona può – senza che ciò sia scontato o automatico – comportare conseguenze sia di tipo interiore (non a caso, rispetto la dolore dell’anima, la psichiatria parla di “resilienza”), sia di tipo relazionale, ontologicamente differenziate le une dalle altre, non sovrapponibili sul piano fenomenologico, la cui presenza deve essere vagliata nel caso concreto, e conseguentemente anche la relativa risarcibilità.

Le conseguenze dell’evento dannoso, infatti, non sono mai catalogabili secondo universali automatismi, poiché non esiste una tabella universale della sofferenza umana.

Pertanto, il giudice chiamato a valutare la responsabilità civile non potrà e non dovrà mai essere un burocrate che applica automatismi matematici, soprattutto laddove una liquidazione meramente algebrica risulti palesemente inadeguata ed inappropriata in rapporto alla sofferenza del danneggiato che chiede giustizia.

Non sarà affatto compito facile allora quello del magistrato, data la difficoltosa sovrapponibilità tra la dimensione del dolore e quella del denaro, ma sarà meno arduo attraverso uno studio ed un esame attento del caso concreto, magari contemperando coscienza con giurisprudenza.

La questione si sposta così sul piano della allegazione e della prova del danno, correttamente valutata nel caso di specie dalla corte territoriale, la cui formazione in giudizio postula la consapevolezza della unicità e irripetibilità della vicenda umana sottoposta alla cognizione del giudice, dato lo specifico richiamo “alle condizioni soggettive del danneggiato” che il legislatore ha opportunamente trasfuso in norma.

La Suprema Corte ci consegua così una lettura del danno non patrimoniale la cui liquidazione procede senza automatismi, poiché, come si legge nella sentenza “non esiste una tabella universale della sofferenza umana”.

Avv. Francesco Abbate
(avvocato del foro di Latina)

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