Va segnalata una sentenza della Cassazione Civile dell’8 marzo 2017, la numero 5786, più che per il suo contenuto – invero, non rivoluzionario – per il singolare ‘andirivieni’ di pronunce tra giudici di merito e di legittimità che hanno contraddistinto la vicenda in questione.
Trattavasi di un caso in cui il Tribunale di Rimini aveva riconosciuto un risarcimento danni di natura patrimoniale a un soggetto il quale lamentava, oltre al consueto danno biologico, anche la diminuzione della propria capacità lavorativa specifica di piastrellista.
La compagnia di assicurazione aveva ricorso contro la sentenza e ottenuto, dalla Corte d’Appello di Bologna, la reiezione della domanda attorea sotto il profilo de quo in quanto non sufficientemente ‘allegato’, documentato e provato.
A questo punto, l’attore ricorreva in Cassazione e otteneva, a sua volta, il rinvio del giudizio avanti alla Corte felsinea sulla base di un ben preciso assunto: non si poteva negare il ristoro dei danni patrimoniali da lesione dell’incapacità lavorativa per il semplice fatto che il danneggiato non avesse adeguatamente provato l’esercizio, con concreto riferimento all’epoca del sinistro, dell’attività lavorativa di posatore specializzato.
In particolare, secondo l’ordinanza n. 1439/2012 della Corte di Cassazione, l’omessa dimostrazione dello svolgimento delle cennate mansioni artigianali non escludeva “la necessità di accertare e – sussistendone i presupposti di fatto – riconoscere il danno futuro determinato dalla ridotta capacità di esplicare attività lavorativa confacente alle attitudini della vittima”.
Non solo; la Cassazione aveva cura di precisare che – in mancanza di documentazione idonea a certificare lo svolgimento dell’attività di piastrellista – il giudice di merito avrebbe ben potuto e dovuto verificare l’applicabilità, al caso di specie, del criterio sussidiario costituito dal triplo della pensione sociale di cui alla legge 39 del 1977. Ma la storia non finiva qui.
Benché la Corte d’Appello si fosse tempestivamente adeguata alle raccomandazioni degli Ermellini (riconoscendo alla vittima il ristoro del danno patrimoniale da incapacità lavorativa, così come liquidato in primo grado dal Tribunale) la compagnia di assicurazione non si dava per vinta. Essa infatti riproponeva, per la seconda volta, il caso all’attenzione della suprema Corte denunciando l’omessa verifica – da parte dei giudici di secondo grado – dei presupposti indispensabili a riconoscere il danno da perdita della capacità lavorativa.
Ebbene, la Cassazione – nuovamente interpellata – tornava su suoi passi negando la risarcibilità di quel danno di natura patrimoniale che aveva invece ritenuto, con la sua precedente ordinanza, pienamente riconoscibile.
La complessa e intricata vicenda processuale molto ci racconta delle lentezze endemiche in cui versa la giustizia italiana, non di rado determinate da un macroscopico difetto di coerenza addebitabile all’autorità giudiziaria.
Quantomeno laddove – come nell’ipotesi in esame – i giudici, trovandosi ad affrontare il medesimo caso, giungano a ri-considerarlo rivoluzionando verdetti precedentemente resi. Decidendo, cioè, in modo tutt’affatto diverso rispetto al proprio anteriore convincimento (già palesato con tanto di motivazioni e PQM) e finendo per ingenerare quella farraginosità ‘di sistema’ responsabile della collocazione del nostro paese agli ultimi posti delle graduatorie di efficienza.
Venendo ora al merito della faccenda, possiamo limitarci a una sottolineatura: con la sentenza in commento, la Corte ha ribadito un paio di concetti già noti e consolidati nella giurisprudenza italiana. In primo luogo, con riferimento alla necessità, per chi agisce in giudizio, di allegare e provare le proprie affermazioni (nella fattispecie, l’attore aveva dedotto di svolgere il lavoro di piastrellista solo in sede di CTU medico legale e non aveva né depositato alcun documento a supporto né chiesto l’ingresso di alcuna prova orale a sostegno dei propri asserti).
In secondo luogo, i magistrati di ultima istanza hanno colto l’occasione per ribadire quali sono gli elementi di carattere istruttorio idonei a sorreggere una domanda di risarcimento danni di natura patrimoniale: da un lato la dichiarazione dei redditi e dall’altro le fatture per prestazioni effettuate o anche per acquisto di materiali “indicative del concreto esercizio dell’attività ovvero attestanti il conseguimento di una (potenzialmente spendibile in futuro sul mercato del lavoro) qualificazione professionale”.
Possiamo riassumere il tutto affermando che l’ultimo approdo (costituito dalla sentenza di cui trattasi) di tale peripezia processuale è giustificato e ben motivato. Tuttavia, è arduo comprendere per quale ragione si siano resi necessari addirittura due passaggi davanti alla Cassazione e due davanti a una Corte d’Appello (oltre a quello originario di primo grado) per definire una questione dai contorni giuridici e di fatto tutt’altro che trascendentali.

Avv. Francesco Carraro
(Foro di Padova)

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