In caso di licenziamento disciplinare, l’inquadramento e la posizione ricoperta dal lavoratore sono elementi di cui tenere conto?

Se non vengono svolte determinate attività che competono all’inquadramento ed alla posizione del lavoratore, tali da comportare una grave negligenza, il licenziamento è legittimo.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 26091 del 2 novembre 2017. Con tale sentenza, la Suprema Corte ha infatti confermato la legittimità del licenziamento disciplinare comminato ad una dipendente di una società di “bingo”. La lavoratrice, per grave negligenza, non aveva eseguito compiti di controllo riguardanti la correttezza e la completezza di talune comunicazioni telematiche.

La vicenda

La Corte d’Appello di Roma, in parziale riforma della sentenza di primo grado, aveva dichiarato la legittimità del licenziamento disciplinare che era stato intimato da una società di “bingo” nei confronti di una dipendente. Alla lavoratrice era stato addebitato di non aver “trasmesso i dati di gioco al centro di controllo del Ministero delle Finanze nel periodo 26 luglio 2010 – 08 agosto 2010 e di essersi appropriata di mance destinate a tutti i dipendenti, nonché della somma di Euro 20,00 facente parte di un premio dovuto ad un cliente”.
Secondo la Corte d’appello, in particolare, gli elementi raccolti nel corso del giudizio erano sufficienti a ritenere integrata la “giusta causa di licenziamento”, in quanto erano stati contestati alla lavoratrice comportamenti “reiterati nel tempo e tali da denotare sia una grave negligenza nell’adempimento delle mansioni di competenza, sia una preordinata volontà di appropriarsi di beni altrui, e precisamente dei colleghi di lavoro e dei clienti, con conseguente grave pregiudizio anche per l’immagine della società”.
La lavoratrice si era quindi rivolta in Cassazione.

La sentenza della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha respinto il ricorso della lavoratrice.
Secondo la Cassazione, infatti, la Corte d’appello aveva accertato che l’inquadramento e la posizione di responsabilità della lavoratrice “comprendevano anche compiti di controllo riguardanti la correttezza e la completezza delle comunicazioni che giornalmente dovevano essere effettuate, per via telematica, al Centro di controllo”.
Inoltre, continuava la Cassazione, la Corte d’appello aveva fondato la propria decisione, non solo sui dati che una testimone aveva “appreso in via indiretta attraverso la visione dei filmati”, ma anche “sui fatti da questa riferiti per percezione e conoscenza diretta, tali da avvalorare gli elementi indiziari costituiti dalle dichiarazioni scritte degli altri dipendenti”.
Per questi motivi il ricorso veniva rigettato e la ricorrente condannata al pagamento delle spese processuali.
 
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