La correlazione tra l’HCV e l’attività di infermiere viene accertata dalla Commissione medica come malattia professionale e i familiari del lavoratore deceduto chiedono il beneficio della legge 210 e il risarcimento del danno parentale al Ministero della salute che non viene riconosciuto (Cassazione Civile, sez. III, 28/03/2024, n.8524).

La vicenda

All’infermiere viene diagnosticata nel 1990 la positività all’HCV, la patologia si evolveva nel corso degli anni fino alla morte, avvenuta nel 2007 a causa di “epatopatia HCV dipendente. Diabete mellito. Causa terminale: encefalopatia epatica. Insufficienza renale”.

I congiunti, nel 2008, presentano domanda per ottenere l’indennizzo Legge n. 210 del 1992, evidenziando la correlazione tra l’HCV e l’esercizio delle mansioni di infermiere. La correlazione era accertata dalla Commissione medica ospedaliera di Taranto, che riconduceva l’evento letale proprio alla malattia professionale, ovvero una grave epatopatia sofferta dall’infermiere e contratta a causa dell’attività svolta in ospedale e riconosceva il diritto alla indennità una tantum prevista dalla suddetta legge in favore dei superstiti.

Successivamente, nel 2014, i medesimi congiunti citano in giudizio il Ministero della salute, per il danno da perdita del rapporto parentale. Il Ministero deduce la propria carenza di legittimazione attiva non essendo il datore di lavoro dell’infermiere, aggiunge che l’accertamento, da parte della Commissione medica ospedaliera, della esistenza di una correlazione tra decesso e patologia contratta in ambito ospedaliero, non è vincolante nel giudizio promosso dagli eredi per il risarcimento del danno perché risponde a criteri indennitari, diversi da quelli a base di un giudizio risarcitorio.

Il Tribunale di Lecce rigetta la domanda risarcitoria e la Corte di Appello di Lecce conferma il primo grado argomentando che il giudizio della Commissione medica ospedaliera applica criteri differenti rispetto a quelli dell’accertamento della responsabilità civile. Oltre a ciò i Giudici di secondo grado danno atto dell’omessa prova che il contagio fosse stato contratto dall’infermiere nell’esercizio delle sue mansioni né, tanto meno, che lo stesso fosse stato contratto da un paziente portatore di epatite contratta a seguito di trasfusioni di sangue infetto.

Il ricorso in Cassazione

La vicenda finisce al vaglio della Corte di Cassazione. I familiari della vittima sostengono che l’eventuale responsabilità contrattuale dell’azienda ospedaliera per la malattia professionale, della quale era dipendente la vittima, non escluderebbe la responsabilità extracontrattuale del Ministero, perché uno stesso evento dannoso può dar luogo a più responsabilità concorrenti e perché la lesione del rapporto parentale sarebbe da ricondurre, sotto il profilo causale, non al rapporto di lavoro dipendente, che costituirebbe una mera occasione della esposizione al contagio, ma alla violazione, da parte del Ministero, dei suoi obblighi di vigilanza in materia di sangue ed emoderivati. Aggiungono che la ricevuta liquidazione dell’indennizzo previsto dalla legge n. 210 del 1992 non preclude l’ordinaria azione giudiziaria per far valere la responsabilità da fatto illecito dello Stato e per conseguire l’integrale risarcimento dei danni.

Il ricorso è complessivamente inammissibile perché la strutturazione dei motivi, nella sua genericità, non raggiunge la soglia minima di apprezzabilità per un ricorso per Cassazione.

Non vengono enunciate le norme che si assumono violate, che possono dedursi, a contrario dalla vicenda processuale e dal pregiudizio che i ricorrenti lamentano di aver subito dalla decisione impugnata, con una operazione ricostruttiva che non può portarsi a fondo, perché inevitabilmente condurrebbe il giudicante a sostituirsi, inappropriatamente, alla parte nel formulare, col dovuto rigore, la propria linea difensiva e, in un giudizio di legittimità, le censure al provvedimento impugnato.

L’azione risarcitoria doveva esercitarsi nei confronti del datore di lavoro

A prescindere dalla genericità dei motivi di censura, i familiari della vittima ipotizzano che l’HCV sia stata contratta in ragione dell’esposizione professionale al rischio di contagio, però non hanno intrapreso un’azione risarcitoria nei confronti del datore di lavoro dell’infermiere ai sensi dell’art. 2087 c.c. (come doveva essere), bensì un’azione generale di responsabilità extracontrattuale nei confronti del Ministero della Salute, ritenuto responsabile della morte per non avere evitato il contagio da epatite C all’infermiere.

Ebbene, da un lato, è pacifica la competenza del Ministero della Salute ad esercitare i controlli sul sangue somministrato per finalità terapeutiche, e in questo caso è esercitabile l’azione generale di responsabilità civile per le patologie conseguenti ad infezione da virus HBV, HIV e HCV, contratte a seguito di emotrasfusioni o somministrazioni di sangue infetto. Ma, al di fuori delle ipotesi di trasfusioni o altro tipo di somministrazioni di sangue infetto, perché il Ministero possa essere ritenuto responsabile della violazione dei suoi obblighi di controllo è necessario, a monte, che sia individuata una specifica causa della contrazione della patologia stessa, che, ove non consista nella diretta somministrazione del sangue al soggetto che assume di essere stato infettato, deve consistere in altra occasione di esposizione al contatto col sangue infetto, in riferimento ad un episodio specifico all’interno del quale il contagio si assume si sia verificato. In altri termini, deve essere individuato e provato il nesso causale, sulla base della regola probabilistica della preponderanza dell’evidenza o del “più probabile che non”, tra l’operato del Ministero e la malattia professionale contratta da un soggetto non emotrasfuso, o assuntore di emoderivati.

Manca la ricostruzione della serie causale

Se manca la specifica ricostruzione della serie causale, non è possibile discorrere di responsabilità del Ministero per la semplice contrazione di una patologia epatica, comunque e in qualsiasi tempo contratta, che possa essere stata astrattamente provocata dal contatto col sangue o con veicoli di trasporto e asporto di sangue (quali siringhe non debitamente disinfettate).

I familiari dell’infermiere deceduto non hanno indicato episodi in cui la vittima possa essersi infettata, né che la stessa sia stata sottoposta in proprio ad emotrasfusione, o che, in uno o più episodi della sua vita professionale, sia venuto a contatto diretto col sangue di un paziente a rischio o emotrasfuso.

Per tali ragioni non è possibile ricostruire una responsabilità per omessa sorveglianza in capo al Ministero.

Avv. Emanuela Foligno

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