L’Inail lamenta in appello l’assenza di prova del nesso causale tra le mansioni svolte e l’artrosi della colonna lombo sacrale e il riconoscimento del danno nella misura del 6% (Corte d’Appello di Roma, Sez. III lavoro, Sentenza n. 2427/2021 del 24/06/2021 RG n. 155/2019)

Il lavoratore propone ricorso al Giudice del lavoro del Tribunale di Roma contro l’Inail chiedendo di accertare e dichiarare che la malattia “artrosi della colonna lombo sacrale ” denunciata in data 22 giugno 2015 all’Istituto è stata contratta in occasione ed a causa dell’attività lavorativa da lui svolta e che comporta una menomazione dell’integrità nella misura del 24%.

L’Inail si costituisce in giudizio deducendo che la domanda del ricorrente non è provata e del tutto infondata.

Il processo viene istruito con l’acquisizione dei documenti prodotti dalle parti e con CTU medico-legale.

Il CTU accerta che :

  • il lavoratore è affetto da spondiloartrosi lombare con protusioni discali e segni di radicolopatia cronica L5;
  • l’attività lavorativa del ricorrente ha concorso, in termini di elevata probabilità, all’insorgenza o alla progressione della spondiloartrosi lombare con danno biologico permanente quantificato, secondo i criteri del d.l gs. 38/2000, nella misura del 6%;
  • la data di insorgenza della malattia denunciata è sicuramente antecedente al gennaio 2007 dal momento che l’RX effettuato in data 25/01/20 07 già evidenziava iniziali note artrosiche a livello lombare;
  • la malattia denunciata si è manifestata definitivamente nel novembre 2010 quando il ricorrente decideva di sottoporsi ad intervento di termolisi della radice nervosa di L5 -S1 sinistra;
  • la patologia denunciata ha raggiunto la soglia di gravità indennizzabile nel corso dell’anno 2015 quando veniva evidenziata con esame elettromiografico, effettuato in data 15/07/2015, una…sofferenza neurogena cronica in territorio L5 bilaterale”.

Il Giudice di primo grado accoglieva il ricorso dichiarando il diritto del ricorrente a vedersi corrispondere dall’Inail l’indennizzo in capitale in misura pari al 6%, oltre alla maggior somma tra interessi legali e rivalutazione monetaria, come per legge.

Veniva osservato che le mansioni svolte dal ricorrente sono state oggetto di solo generica contestazione da parte dell’Inail , avendo peraltro lo stesso Istituto convenuto prodotto il documento contenente la storia professionale del ricorrente.

Riguardo al nesso causale tra l’attività lavorativa e la malattia , il Tribunale richiamava gli esiti dell’accertamento svolto dal CTU riguardo all’elevata probabilità del ruolo concausale. Riguardo all’eccepita inammissibilità della domanda per intervenuto decorso del termine per l’inoltro della denuncia di malattia professionale, il Giudice di primo grado richiamava, anche in questo caso, gli esiti dell’accertamento peritale che hanno individuato nel novembre 2010 la data della definitiva manifestazione della malattia e nell’anno 2015 la data di superamento della soglia di indennizzabilità.

L’Inail appella la sentenza.

L’appellante lamenta l’erroneo convincimento circa l’assenza di presa di posizione e contestuale contestazione da parte dell’Istituto delle mansioni dedotte dal ricorrente, in considerazione delle quali il giudice illegittimamente non avrebbe ritenuto necessario l’espletamento della prova orale articolata dalla parte istante, ovvero l’integrazione del contraddittorio con il datore di lavoro.

Evidenzia, inoltre, di non essere in grado, in assenza di DVR, di contestare analiticamente le mansioni svolte, potendo solamente mettere in rilievo incongruenze e contraddizioni rispetto a quanto asserito dal ricorrente, senza che ciò costituisca riconoscimento delle affermazioni della parte privata.

La doglianza è infondata.

Evidenzia la Corte che l’Inail essendo estraneo al rapporto di lavoro, non vale nei suoi confronti il principio della non contestazione con riguardo alle mansioni svolte dal lavoratore.

In argomento, l’inosservanza dell’onere di non contestazione che rende il fatto pacifico e non bisognoso di prova, sussiste soltanto per i fatti noti alla parte e dedotti nel processo, non anche per quelli ad essa ignoti o allegati in sede extraprocessuale, atteso che il principio di non contestazione trova fondamento nel fenomeno di circolarità degli oneri di allegazione, confutazione e prova,

L’Inail ha prodotto in giudizio le considerazioni mediche del 12 giugno 2018 in cui sono descritte le mansioni svolte dal ricorrente e sulla base delle quali l’Istituto ha ritenuto insussistente il rischio lavorativo, considerando una malattia comune .

Le medesime mansioni sono riportate dal CTU nell’anamnesi personale lavorativa e sulle stesse è stato emesso il parere medico – legale che, invece, ha concluso per la sussistenza della tecnopatia.

Nessuna critica è stata avanzata dall’Istituto all’elaborato del CTU, nemmeno riguardo alle mansioni prese a riferimento per la valutazione medico – legale.

Ne consegue, che la concreta doglianza dell’Inail riguarda la differente valutazione Medico-Legale.

Ed ancora, l’Inail critica la sentenza di primo grado per genericità in quanto non fa riferimento alla patologia da cui il lavoratore è affetto .

Tale motivo di appello è palesemente infondato.

La circostanza che la sentenza non riporti esplicitamente la patologia sofferta dal lavoratore non rileva poiché nessuna norma impone tale indicazione , mentre risulta pienamente rispettato il dettato dell’articolo 132 c.p.c. riguardante il contenuto della sentenza.

Con la terza doglianza l’Inail lamenta l’assenza di prova del nesso causale tra le mansioni svolte ed il danno artrosico, il riconoscimento del danno nella misura del 6% e l’erronea fissazione dell’epoca di conoscenza della malattia all’anno 2010 , sebbene dagli esami acquisiti risultasse provata la sua antecedente conoscenza ben oltre i dieci anni prima della denuncia .

Il motivo è inammissibile per genericità.

L’Istituto impugna la sentenza sui capi del riconoscimento del nesso causale e della quantificazione del danno senza dedurre nessuna specifica critica alle valutazioni e conclusioni del CTU di primo grado che sono state integralmente recepite dalla decisione del Tribunale di Roma.

La censura relativa alla data di conoscenza della malattia , inoltre, non tiene conto, e non critica in alcun modo, la valutazione del CTU circa la definitiva manifestazione della stessa e, soprattutto, la data del raggiungimento della soglia di indennizzabilità.

Sul punto, la Corte richiama l’orientamento di legittimità secondo cui ” la manifestazione della malattia professionale, rilevante quale dies a quo per la decorrenza del termine triennale di prescrizione di cui all’art. 112 del DPR 1124/1965, può ritenersi verificata quando sussista la oggettiva possibilità che l’esistenza della malattia, ed i suoi caratteri di professionalità ed indennizzabilità siano conoscibili in base alla conoscenze scientifiche del momento, senza che rilevi il grado di conoscenze e di cultura dell’interessato …… il termine di prescrizione…decorre dal momento in cui uno o più fatti concorrenti forniscano certezza dell ‘esistenza dello stato morboso o della sua conoscibilità da parte dell’assicurato in relazione anche alla sua eziologia professionale e al raggiungimento della misura minima indennizzabile “.

La recente Ordinanza della Cassazione n. 1661/2020 ha precisato che ” la manifestazione della malattia professionale rilevante ai fini dell’individuazione del dies a quo…può ritenersi verificata quando sussiste l’oggettiva possibilità che l’esistenza della malattia ed i suoi caratteri d i professionalità ed indennizzabilità siano conoscibili dal soggetto interessato; tale conoscibilità, che è cosa diversa dalla conoscenza, altro non è che la possibilità che un determinato elemento sia riconoscibile sulla base delle conoscenze scientifiche del momento “.

Ebbene, atteso che dagli accertamenti peritali esperiti in primo grado è risultato che il requisito dell’indennizzabilità è stato integrato solamente nell’anno 2015, senza nessuna contestazione da parte dell’Istituto, non sussiste la prescrizione invocata.

L’appello viene integralmente rigettato e l’Inail viene condannato al pagamento delle spese di giudizio liquidate in euro 1.200,00, oltre esborsi, spese generali e accessori di legge.

Avv. Emanuela Foligno

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