E’ configurabile il mobbing lavorativo ove ricorra l’elemento obiettivo, integrato da una pluralità di comportamenti del datore di lavoro, e quello soggettivo dell’intendimento persecutorio del datore medesimo

Si è pronunciata da recente la Corte d’Appello di Roma sulla vicenda di un dipendente comunale presunta vittima di mobbing lavorativo.

La vicenda

L’azione era stata rivolta da un dipendente comunale contro l’ente proprio datore di lavoro per asserite condotte di mobbing perpetrate nei suoi confronti.

L’uomo era stato mobbizzato e demansionato. Chiedeva pertanto, la cessazione della condotta lesiva e la possibilità di tornare ad occupare il proprio ruolo.

Il comune per l’effetto, sarebbe stato anche condannato al risarcimento del danno patrimoniale e/o non patrimoniale nella misura pari all’importo della retribuzione mensile per ogni mese di accertamento dell’illecita condotta datoriale, ovvero nella diversa somma determinata in via equitativa con prudente apprezzamento dei Giudice adito, oltre al risarcimento per danno biologico per invalidità temporanea (totale e parziale) e per invalidità permanente così come risultante dalla documentazione sanitaria prodotta.

Resisteva l’ente, convenuto in giudizio dinanzi al Tribunale di Cassino.

In primo grado, la domanda veniva parzialmente accolta, dichiarando esclusivamente l’illegittimo demansionamento, con rigetto di ogni altra pretesa.

Il procedimento proseguiva in appello, dinanzi alla Corte distrettuale di Roma.

Il processo d’appello

I giudici di secondo grado ricordano che: “è configurabile il mobbing lavorativo ove ricorra l’elemento obiettivo, integrato da una pluralità di comportamenti del datore di lavoro, e quello soggettivo dell’intendimento persecutorio del datore medesimo” (da ultimo Cass. n. 12437/2018).

Con specifico riferimento alla fattispecie in esame poteva invece rilevarsi che il demansionamento era stato disposto non soltanto nei suoi confronti ma anche di altri dipendenti comunali per esigenze tecnico-organizzative interne all’ente. Doveva pertanto, ritenersi errata la qualificazione di tale pratica di dimensionamento come rientrante nella nozione di mobbing.

Peraltro, in assenza di specifica prova, non poteva neppure dirsi che l’assegnazione a mansioni inferiori avesse prodotto una perdita delle conoscenze tecniche originariamente possedute dal lavoratore o che essa avesse determinato un danno alla sua dignità professionale, alla sua vita professionale e di relazione. Detto danno, avente natura non patrimoniale, in difetto di prove sufficienti, non poteva ritenersi sussistente, neppure sulla base dell’apprezzamento degli elementi acquisiti al giudizio, relativi alla natura, all’entità, alla durata del demansionamento ed ai riflessi che lo stesso presumibilmente ebbe nell’ambiente di lavoro del ricorrente.

Ed infine, anche con riferimento al dedotto danno alla salute (gastrite), la domanda andava respinta, posto che nl ricorso introduttivo l’appellante si era limitato esclusivamente a svolgere considerazioni generali menzionando solo alla fine il “danno biologico come allegato agli atti”. Esso, tuttavia, non conteneva alcun riferimento alla patologia che avrebbe voluto fosse risarcita.

Niente da fare allora per il povero lavoratore. Ricorso rigettato senza alcun riconoscimento del danno patito.

 

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