Esistono numerose ordinanze che vietano di nutrire gli animali randagi. Ecco quali rischi ci sono per chi decide di farlo

Recentemente, il dibattito sull’opportunità di nutrire gli animali randagi è ritornata al centro del dibattito, complice l’ordinanza emanata dal Sindaco di Cocullo (AQ), Sandro Chiocchio, proprio su questo tema.

Ebbene, il primo cittadino ha sancito il divieto di nutrire gli animali randagi in centro storico, pena una multa da 25 a 250 euro.

Sono subito giunte le repliche degli animalisti. Walter Caporale (Animalisti italiani) ha definito il provvedimento “in contrasto con la normativa nazionale e regionale sulla prevenzione del randagismo e sulla tutela degli animali di affezione”.

Caporale ha aggiunto che “imporre il digiuno è illegittimo, se non crudele”, anche secondo copiosa giurisprudenza, e che il divieto di nutrire gli animali randagi “nella categoria del maltrattamento e quindi perseguibile penalmente”.

Il sindaco, dal canto suo, ha ribattuto che non essendoci aree verdi dove gli animali possano espletare i loro bisogni, il provvedimento è finalizzato a tutelare l’igiene delle strade e la salute pubblica.

Tuttavia, il sindaco si è reso disponibile a incontrare le associazioni e i movimenti animalisti per discutere “la tematica del randagismo in un confronto sereno, onesto e costruttivo per giungere alla soluzione del problema”.

Ma cosa dice la legge in merito alla possibilità di nutrire gli animali randagi?

Il tema è stato spesso oggetto di valutazione da parte della giurisprudenza, poiché sono molti i Comuni in cui sono fioccate ordinanze contro chi dava da mangiare ai randagi.

Le incertezze sul tema derivano dal fatto che la legge sul punto non è esplicita, non prevedendo espressamente la liceità o meno di tale comportamento.

In particolare, il testo di riferimento è la L. 281/1991, ovvero la Legge quadro in materia di animali di affezione e prevenzione del randagismo.

All’art. 1, il provvedimento prende una chiara posizione sulla tutela degli animali da affezione, stabilendo che questa debba essere promossa e disciplinata dallo Stato.

Questo condanna tutti gli atti di crudeltà contro di essi, i maltrattamenti e il loro abbandono, al fine di favorire la corretta convivenza tra uomo e animale e di tutelare la salute pubblica e l’ambiente.

La legge n. 281, inoltre, prevede che il Sindaco sia la massima autorità sanitaria, il padrone di tutti cani randagi sul territorio il quale risponde dell’incolumità pubblica.

Ora, rifacendoci proprio alla legge n. 281/1991, la giurisprudenza si è spesso occupata della tematica. Ad esempio, nel recente provvedimento n. 958/2018, il TAR Campania ha accolto il ricorso di un’associazione contro l’ordinanza emessa da un Comune beneventano.

L’amministrazione campana, infatti, vietava ai cittadini di alimentare i cani randagi nelle aree pubbliche.

Il Tribunale Amministrativo ha annullato l’ordinanza evidenziando come la mancata somministrazione di cibo in luoghi pubblici mettesse a rischio l’incolumità dei randagi che sarebbero potuti morire di inedia.

Non solo.

Secondo il TAR, “l’interesse pubblico perseguito con il divieto di alimentazione non può identificarsi nel divieto di alimentazione di cani randagi o animali di affezione, bensì viceversa nell’esigenza di evitare il verificarsi di situazioni nocive o pericolose dal punto di vista igienico sanitario, le quali possono essere messe in pericolo dall’abbandono di rifiuti su suolo pubblico, avanzi di cibo o contenitori”.

Dunque, il TAR ha ritenuto del tutto lecita la somministrazione di cibo in favore di cani randagi o animali da affezione vaganti in genere.

Il tutto però a patto che il deposito di cibo avvenga attraverso l’uso di appositi contenitori e a condizione che gli stessi vengano successivamente rimossi a cura degli stessi cittadini che hanno somministrato il cibo.

Un adempimento, questo, che costituisce un loro preciso obbligo, oltre che conforme al comune senso civico.

La violazione di tale norma risulta già perseguibile integrando la fattispecie di abbandono di rifiuti su suolo pubblico.

Un’altra sentenza del TAR Puglia (sent. n. 525/2012) ha accolto il ricorso promosso da alcune associazioni zoofile locali contro un’ordinanza comunale.

Anche qui è stato ritenuto che il divieto sindacale di offrire alimenti agli animali randagi apparisse in contrasto con la legge quadro nazionale n. 281/91.

Nel caso di specie, era stata una relazione ASL a suggerire di bloccare la distribuzione del cibo in ambito urbano.

Si era infatti rilevato “un aumento dell’imbrattamento del suolo pubblico con conseguente aumentato rischio di trasmissione di infestioni da ecto ed endo parassiti alla popolazione”.

Ciononostante, la Asl non ha fornito prove di ciò. Ed è proprio suo compito programmare il controllo delle nascite attraverso la profilassi. Questa deve riguardare non solo degli animali “domestici” ma anche e soprattutto i randagi.

Dello stesso tenore la decisione del TAR Calabria, sent. 1135/2015.

Questo che ha rilevato come vi sia una “chiara predeterminazione legislativa favorevole all’adozione di misure diverse, da quelle del divieto di alimentazione generalizzato” fino al controllo delle nascite mediante la sterilizzazione.

Per tale ragione, il Tar ha annullato la disposizione del regolamento comunale. Essa  prevedeva il divieto generalizzato e rivolto a tutti i cittadini di nutrire gli animali randagi.

Anche la Cassazione si è pronunciata sul tema con la sentenza n. 17145/2017.

Con essa, gli Ermellini hanno affermato che chi dà da mangiare a un randagio, anche se in maniera occasionale, ne diventa responsabile ed è tenuto a pagare i danni se l’animale morde un passante.

Tutto nasceva dall’episodio in cui due cani, usciti dalla loro recinzione, avevano aggredito un uomo. Il proprietario si era difeso dall’accusa di lesioni colpose per omessa custodia di animali ritenendo che i cani non fossero suoi, ma randagi a cui aveva dato di tanto in tanto da mangiare.

Ebbene, per i giudici, l’insorgere della posizione di garanzia relativa alla custodia di un animale “prescinde dalla nozione di appartenenza”.

Essa sorge ogni qualvolta sussista una relazione anche di semplice detenzione tra l’animale e una data persona.

Pertanto, a prescindere dall’appartenenza degli animali all’imputato, “si era inequivocabilmente costituito una relazione di detenzione tra lo stesso e i due cani che frequentavano il cortile delimitato della sua abitazione, trovando ivi ricovero e cibo e rispetto ai quali il ricorrente si era volontariamente assunto la custodia”.

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