Per l’integrazione del reato occorre l’elemento soggettivo del dolo che può essere escluso solamente per impossibilità incolpevole nell’adempimento

La Corte di Cassazione ha confermato la sentenza di condanna nei confronti del legale rappresentante di una società a responsabilità limitata per il reato di omesso versamento dell’IVA previsto dall’articolo 10 ter del decreto legislativo n. 74/2000. L’uomo aveva impugnato presso la Suprema Corte la sentenza della Corte di appello fondando il suo ricorso, sulla violazione della normativa vigente in materia e sulla manifesta illogicità della motivazione della sentenza.
In particolare, il ricorrente rilevava la mancanza, nella condotta a lui imputata, dell’elemento soggettivo del reato, ovvero la coscienza e volontà di non voler versare l’imposta all’erario nel periodo considerato. Secondo la giurisprudenza della Cassazione tale elemento, ovvero il dolo, può essere escluso laddove il mancato versamento dipenda da ‘impossibilità incolpevole nell’adempimento’.
Nel caso in questione, tuttavia, gli Ermellini, evidenziavano che il dolo in capo all’imputato fosse provato dalla sua stessa ammissione rispetto alle gravi difficoltà economiche della società amministrata e al tentativo di risanamento aziendale mediante l’impiego delle risorse esistenti nelle operazioni di ristrutturazione societaria. L’omesso versamento dell’Iva, dunque, era stato il risultato di una deliberata e consapevole scelta di politica aziendale e pertanto la Corte d’appello aveva correttamente ritenuto sussistente l’elemento soggettivo in quanto le difficoltà economiche erano da ritenersi “fattori esterni incidenti sulla motivazione della condotta illecita, ma inidonee ad escludere il dolo”.
Il ricorrente, inoltre, sottolineava che il reato a lui ascritto era stato depenalizzato in seguito alle modifiche introdotte dal d.lgs. 158/2015 . Tale norma, infatti, fissa la soglia di punibilità per l’omesso versamento dell’IVA a quota 250.000 euro, una cifra che nel caso in esame non era stata superata relativamente a un periodo di imposta considerato, mentre per un altro periodo di imposta era stata oltrepassata di poco; in questa seconda circostanza pertanto – anche in considerazione delle condizioni oggettive di crisi e carenza di liquidità in cui versava la società, nonché delle finalità verso cui era indirizzatala sua azione – vi sarebbero stati i presupposti per configurare la causa di non punibilità del fatto di particolare tenuità.
La Suprema Corte, tuttavia, ha ritenuto di accogliere solo parzialmente tali argomentazioni. Rispetto al primo periodo di imposta considerato, infatti, i giudici di Piazza Cavour hanno effettivamente riconosciuto che la sentenza di condanna della Corte d’appello andava annullata “per insussistenza del fatto”. In relazione, invece, all’altro periodo di imposta, la richiesta avanzata dall’imputato circa l’applicazione della causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto non poteva essere accolta, soprattutto in considerazione del fatto che la condotta costituiva “la reiterazione di analogo comportamento serbato in relazione al precedente periodo di imposta”; un comportamento che difatti, sebbene non punibile penalmente, configura in ogni caso un illecito.
Sulla base di tali elementi, quindi, la Cassazione, con sentenza n. 30397 del 18 luglio 2016 riformava parzialmente la pronuncia del giudice di secondo grado, riducendo la pena inflitta all’imputato e rideterminandola in mesi 10 di reclusione.
 

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