Il paziente ha diritto al rifiuto delle cure somministrate, anche quando tale rifiuto possa causarne la morte; il dissenso alle cure mediche, per essere valido deve essere espresso, inequivoco, attuale e manifestato ex post (Cassazione Civile, sez. III, sentenza n. 29469 del 23 dicembre 2020)

La paziente, Testimone di Geova, conveniva a giudizio dinanzi il Tribunale di Milano la Struttura Ospedaliera e il Medico chiedendo il risarcimento del danno in relazione alle trasfusioni di sangue eseguite contro la sua volontà a seguito di emorragia durante il parto cesareo.

Il Tribunale di Milano e, successivamente, la Corte d’Appello di Milano rigettavano la domanda risarcitoria della donna.

In particolare, la Corte milanese affermava che le trasfusioni somministrate erano indispensabili, stante il contesto di emorragia acuta con valore di emoglobina inferiore a 6 g/dl e perdita ematica stimata di oltre il 40% del volume normale. Conseguentemente la dichiarazione resa dalla donna al momento di ingresso in ospedale inerente il rifiuto alle trasfusioni non poteva considerarsi operante a fronte di una situazione di pericolo di vita.

Inoltre, la Corte territoriale, evidenziava la mancata prova che al momento di esprimere il rifiuto preventivo alla trasfusione la donna intendesse rifiutare di sottoporsi a trasfusione anche nell’ipotesi di pericolo di vita, posto che dalla CTU era emerso che la trasfusione si era resa solo successivamente indispensabile per la sopravvivenza della paziente.

L’accettazione dell’intervento di laparotomia esplorativa implicava, da parte della donna, l’accettazione di tutte le sue fasi, non essendo contestabile che acconsentendo all’intervento la paziente avesse implicitamente, ma chiaramente, manifestato il desiderio di essere curata, e non di morire per evitare di essere trasfusa.

La donna ricorre in Cassazione lamentando motivazione apparente della sentenza, rifiuto preventivo delle terapie e violazioni deontologiche da parte del Medico.

I tre motivi di doglianza sono considerati fondati.

Il paziente, ribadisce la Suprema Corte, ha sempre diritto al rifiuto delle cure mediche che gli vengono somministrate, anche quando tale rifiuto possa causarne la morte.

Tuttavia, il dissenso alle cure mediche per essere valido ed esonerare il Sanitario dal potere-dovere di intervenire, “deve essere espresso, inequivoco ed attuale: non è sufficiente, una generica manifestazione di dissenso formulata “ex ante” ed in un momento in cui il paziente non corre pericolo di vita, ma è necessario che il dissenso sia manifestato ex post, ovvero dopo che il paziente sia stato pienamente informato sulla gravità della propria situazione e sui rischi derivanti dal rifiuto delle cure”.

La Corte territoriale ha ritenuto -errando- che l’accettazione della paziente all’intervento di laparotomia esplorativa implicasse l’accettazione di tutte le sue fasi, ivi compresa la necessità della trasfusione per il caso di pericolo di vita.

La questione di diritto da risolvere, dunque, è se il consenso al trattamento sanitario possa, oppure no, essere qualificato anche come consenso all’emotrasfusione, dato che il diritto all’autodeterminazione ed il credo religioso impedirebbero di interpretare il consenso al trattamento come consenso anche all’emotrasfusione.

Osservano gli Ermellini che ove si assumesse che il consenso al trattamento non potesse costituire consenso anche all’emotrasfusione, il Giudice di merito dovrebbe nuovamente valutare l’esistenza di un espresso, inequivoco ed attuale dissenso alla luce di tale diversa valutazione giuridica della fattispecie.

Considerato che non possono essere applicate le norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento (L. 219/2017) poiché la vicenda esaminata è più risalente, si deve fare riferimento alla L. 833/1978 la quale prevede all’art. 33 la volontarietà degli accertamenti e dei trattamenti sanitari, da leggersi in combinato disposto con l’art. 32 Cost. in base al quale nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge.

Ebbene, è noto che la contrarietà della trasfusione di sangue al credo religioso per i Testimoni di Geova costituisce precetto religioso e difatti la posizione soggettiva fatta valere dalla donna è qualificata dal duplice e concorrente riferimento al principio di autodeterminazione circa il trattamento sanitario e alla libera professione della propria fede religiosa.

Riguardo il primo principio, la manifestazione del consenso del paziente alla prestazione sanitaria costituisce esercizio del diritto fondamentale all’autodeterminazione in ordine al trattamento medico proposto e, in quanto diritto autonomo e distinto dal diritto alla salute, trova fondamento diretto nei principi degli artt. 2,13 Cost. e art. 32 Cost., comma 2.

In tal senso:”il consenso informato, inteso quale espressione della consapevole adesione al trattamento sanitario proposto dal medico, si configura quale vero e proprio diritto della persona e trova fondamento nei principi espressi nell’art. 2 Cost., che ne tutela e promuove i diritti fondamentali, e negli artt. 13 e 32 Cost., i quali stabiliscono, rispettivamente, che “la libertà personale è inviolabile”, e che “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge” (Corte Cost. 23 dicembre 2008, n. 438).

Riguardo il principio della libera professione della fede religiosa viene ribadito il collegamento del diritto di rifiutare il trattamento sanitario all’art. 19 Cost. in relazione a casi in cui il paziente era Testimone di Geova (Cass. 7 giugno 2017, n. 14158 e 15 maggio 2019, n. 12998, quest’ultima richiamata anche da Cass. 15 gennaio 2020, n. 515).

In tal senso: “la libertà religiosa garantita dall’art. 19 Cost. è un diritto inviolabile (sentenze n. 334 del 1996, n. 195 del 1993 e n. 203 del 1989), tutelato “al massimo grado” (sentenza n. 52 del 2016) dalla Costituzione. La garanzia costituzionale ha valenza anche “positiva”, giacchè il principio di laicità che contraddistingue l’ordinamento repubblicano è “da intendersi, secondo l’accezione che la giurisprudenza costituzionale ne ha dato (sentenze n. 63 del 2016, n. 508 del 2000, n. 329 del 1997, n. 440 del 1995, n. 203 del 1989), non come indifferenza dello Stato di fronte all’esperienza religiosa, bensì come tutela del pluralismo, a sostegno della massima espansione della libertà di tutti, secondo criteri di imparzialità” (sentenza n. 67 del 2017)”.

Tali circostanze non sono state valutate dal Giudice di merito che si è limitato a evidenziare la circostanza della necessità dell’emotrasfusione per il mantenimento in vita della paziente.

Inoltre, evidenzia la Suprema Corte, la circostanza della necessità dell’emotrasfusione è priva di rilievo ai fini dell’insorgenza di un principio da contrapporre a quello dell’autodeterminazione e della libertà religiosa.

Conseguentemente, le doglianze della donna possono trovare piena e diretta attuazione, in quanto in base ai principi costituzionali il Testimone di Geova ha diritto di rifiutare l’emotrasfusione.

Nello specifico: “sulla base della fonte costituzionale sorge uno specifico rapporto giuridico contrassegnato dall’obbligazione negativa del sanitario di non ledere la sfera giuridica vantata dal Testimone di Geova, cui spetta la titolarità attiva del rapporto”.

Il consenso prestato dalla donna all’intervento di laparotomia non comportava consenso all’emotrasfusione alla luce del diritto all’autodeterminazione della paziente e dell’incoercibilità del credo religioso della stessa.

Ad ogni modo, l’accettazione dell’intervento di laparotomia esplorativa non ha implicato l’accettazione anche dell’emotrasfusione con la conseguenza che la dichiarazione anticipata di dissenso all’emotrasfusione non può dunque essere neutralizzata dal consenso prestato a quest’ultimo.

Infine, precisano gli Ermellini, “Il medico è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo e, in conseguenza di ciò, è esente da responsabilità civile o penale”, con la conseguenza che “il paziente non può esigere trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali; a fronte di tali richieste, il medico non ha obblighi professionali”.

In conclusione, viene enunciato il seguente principio di diritto: “il Testimone di Geova, che fa valere il diritto di autodeterminazione in materia di trattamento sanitario a tutela della libertà di professare la propria fede religiosa, ha il diritto di rifiutare l’emotrasfusione pur avendo prestato il consenso al diverso trattamento che abbia successivamente richiesto la trasfusione, anche con dichiarazione formulata prima del trattamento medesimo, purchè dalla stessa emerga in modo inequivoco la volontà di impedire la trasfusione anche in ipotesi di pericolo di vita”.

Il ricorso viene accolto, la Suprema Corte cassa la sentenza in relazione ai motivi accolti e rinvia alla Corte di appello di Milano in diversa composizione.

Avv. Emanuela Foligno

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