Pseudoartrosi infetta femore sinistro (Corte Appello Bari, Sentenza non definitiva n. 459/2023 pubblicata il 21/03/2023).

Frattura del femore degenera in pseudoartrosi e si infetta.

La paziente citava a giudizio innanzi al Tribunale di Trani la ASL per vederne accertata la responsabilità per i danni patiti in seguito all’intervento ortopedico del 25/5/2002.

A fondamento della domanda deduceva che: -il 23 maggio 2002, a seguito di una caduta accidentale,  riportava una frattura pertrocanterica del femore sinistro e veniva ricoverata presso l’Ospedale di Bisceglie.

Dopo 2 giorni veniva sottoposta a intervento chirurgico di riduzione e sintesi della frattura con chiodo di gomma; durante il trattamento, nell’applicazione della vite di infissione distale del chiodo, si procurava una frattura diafisaria del femore sinistro, che veniva fissata con dei nastri di putti.

In conseguenza di questo primo intervento non recuperava la capacità di deambulazione ed aveva dolore all’arto operato, perciò veniva sottoposta a ripetuti ricoveri, presso il medesimo Presidio, con ulteriore intervento il 20 novembre 2002 per rinnovo sintesi con chiodo gomma lungo, ovvero sostituzione del chiodo endomidollare per mobilizzazione del precedente.

Nei mesi a seguire seguivano altri ricoveri per “esiti di frattura femore sinistro e blocco protesi ginocchio sinistro”.  Nel novembre 2003 la donna veniva ricoverata per iperpiressia, dolore intenso all’arto e comparsa di fistola scernente in regione laterale, ossia comparsa di processo infiammatorio osteomielitco. Subiva, pertanto, un ulteriore intervento per la rimozione dei chiodi, dei cerchiaggi metallici, toilette del focolaio osteomielitico e nuova sintesi con placca di Broadbone, cerchiaggio con tirante e lavaggio.

Tuttavia, la frattura del femore andava in pseudoartrosi; quindi, in data 20 settembre 2004, veniva trasferita con diagnosi di pseudoartrosi infetta del femore sinistro presso il reparto di ortopedia del Policlinico di Bari, dove le veniva applicato un fissatore esterno, successivamente modificato il 31/10/2005; in data 17/02/2006 seguiva intervento di rimozione del fissatore esterno, con prescrizione di tutore con rialzo per l’arto inferiore sinistro che, a causa dei ripetuti interventi, presentava un notevole accorciamento. Nel  2007 risultava ancora in trattamento presso il reparto di ortopedia dell’Ospedale convenuto  per persistente secrezione sieropurulenta.

La paziente lamenta, nei confronti dell’Ospedale di Bisceglie, errata esecuzione dell’intervento del 25 maggio 2002, per l’erronea applicazione di un chiodo più voluminoso del canale midollare, che provocava  una frattura iatrogena della diafisi femorale, che aveva reso necessario un secondo intervento, poi complicatosi con un’infezione, causa della pseudoartrosi.

La causa veniva istruita con CTU. Il Tribunale di Trani accoglieva la domanda della donna e accertava la responsabilità della ASL di Bari condannandola al pagamento dell’importo di euro 312.676,90.

La ASL soccombente appella la decisione censurando, fra le altre e per quanto ritenuto qui di interesse, la errata interpretazione delle risultanze istruttorie e della consulenza medico-legale che non valorizzava le già precarie condizioni di salute della paziente.

Parte appellante sostiene che, sulla scorta della CTU, emergerebbero profili di responsabilità professionale “a carico dei vari sanitari e delle strutture che hanno preso in cura la paziente…per ben sette anni” e contesta che il CTU non abbia inteso chiarire “quali siano i profili di responsabilità di ciascuna struttura intervenuta nella vicenda”.               

Evidenzia, infine, che quanto sostenuto dal CTU (secondo il quale la frattura diafisaria del femore fu “…con molta probabilità una complicanza dovuta alla difficoltà di introduzione del chiodo per un maggior diametro dello stesso rispetto al diametro del canale midollare della paziente, per cui fu provocata una frattura della diafisi del femore”) contrasta con quanto riportato nel verbale operatorio allegato alla cartella clinica (“durante la centrazione per il posizionamento della vite distale del chiodo GAMMA si provoca frattura diafisaria del femore”) ed è frutto di mere ipotesi del CTU, non fondate su alcuna documentazione né supportate da adeguata motivazione.

Le prime due censure non sono ritenute fondate.

Qualora il Giudice aderisca al parere del CTU, non è tenuto ad esporne in modo specifico le ragioni, in quanto l’accettazione del parere che delinea il percorso logico della decisione, costituisce adeguata motivazione.  

Diversa è l’ipotesi in cui alle risultanze della CTU siano state avanzate critiche specifiche e circostanziate, sia dai consulenti di parte che dai difensori: in tal caso il giudice è tenuto a spiegare in maniera puntuale e dettagliata le ragioni della propria adesione all’una o all’altra conclusione.

Il Tribunale di Trani, aderendo alle conclusioni del CTU, ha ritenuto che tutti gli eventi occorsi alla paziente dopo l’intervento chirurgico del 25.5.2002 sono riconducibili alla imperizia dei sanitari che eseguirono l’intervento, mentre non è ipotizzabile un concorso di responsabilità dei sanitari del Policlinico di Bari, alla cui attenzione la paziente  giunse solo al culmine della fase settica, quando il femore era già in pseudoartrosi.

In altri termini,  le conseguenze patite dalla paziente derivano da un meccanismo a cascata succedutosi per un lungo periodo, ma derivate esclusivamente da malpratice dei Sanitari della Ortopedia dell’ospedale di Bisceglie, essendo pervenuto il caso soltanto nella fase settica all’attenzione dei sanitari del Policlinico di Bari per una separata risoluzione del problema.

Il CTU ha chiarito che nessuna responsabilità è imputabile ai sanitari del Policlinico di Bari ed ha escluso l’incidenza delle pregresse condizioni di salute della paziente, avendo accertato che l’infezione fu conseguenza dell’erronea esecuzione del primo intervento e le patologie da cui era affetta la paziente non hanno avuta alcuna influenza nelle complicanze verificatesi.

Una volta che sia risultato “più probabile che non” che il danno sia stato causato dalla condotta del medico, resta irrilevante determinare l’esatto processo eziologico: una volta acclarato che, durante l’intervento di riduzione e sintesi della frattura pertrocanterica, i medici dell’ospedale provocarono una frattura iatrogena diafisaria del femore della paziente, con le successive complicanze accertate dal CTU, non assume rilievo decisivo quale fu la causa della provocata frattura (se l’uso di un chiodo con diametro maggiore del canale endomidollare o altro).

Infine sul quantum liquidato in primo grado, la Corte di appello ritiene che il CTU debba specificare non solo il criterio adottato per pervenire alla determinazione del grado di invalidità permanente e il barème cui ha fatto riferimento, ma anche, sul piano del criterio di giudizio, procedendo con l’accertamento controfattuale: e cioè ipotizzando quale sarebbe potuta essere la condizione di salute della vittima, al momento della liquidazione, se l’illecito non ci fosse stato, e, in particolare, quale percentuale di invalidità sarebbe residuata alla paziente se la frattura petrocanterica al femore fosse stata trattata correttamente, tenuto anche conto della preesistente protesi al ginocchio sinistro.

Avv. Emanuela Foligno   

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