Non può essere licenziata per la reazione violenta tenuta sul posto di lavoro, la lavoratrice che risulta incapace di intendere e volere al momento del fatto  

La vicenda

Il Tribunale di Milano aveva confermato l’ordinanza dichiarativa dell’illegittimità del licenziamento per giusta causa intimato ad una lavoratrice, condannando la società datrice di lavoro a reintegrarla nella posizione occupata e a corrisponderle un’indennità commisurata alla reintegra, oltre al versamento dei contributi previdenziali e assicurativi.

La condotta contestata era consistita nell’aver gravemente inveito contro i suoi superiori, aver insultato i suoi colleghi di lavoro e gli agenti di polizia intervenuti, e di aver cagionato gravi danni al patrimonio aziendale, prendendo a calci porte e sbattendo con forza le finestre dei servizi del primo piano.

La lavoratrice aveva sin dal ricorso introduttivo del giudizio, dedotto la mancanza dell’elemento intenzionale delle condotte contestate, in quanto non coscienti e volontarie, avendo ella stessa dichiarato di soffrire di un disturbo della personalità e, l’episodio che aveva dato luogo alla sanzione disciplinare era proprio riconducibile a tale quadro patologico.

All’esito della CTU medico legale, il Tribunale aveva ritenuto i fatti posti a fondamento del licenziamento privi dell’elemento intenzionale, per essere stata la lavoratrice in preda ad un episodio psicotico, così da escludere la volontarietà delle condotte. Nella specie lo specialista aveva accertato che “al momento dei fatti contestati la lavoratrice fosse in preda ad uno scompenso psichico acuto, che alterava sia la percezione della realtà, che la capacità di controllarsi sul piano comportamentale. Vi era perciò, piena relazione di causa-effetto tra la condizione psicopatologica riscontrata e il comportamento contestato”.

Contro tale sentenza ha proposto reclamo la società datrice di lavoro contestando l’erroneità della consulenza tecnica, espletata durante la fase sommaria del giudizio nonché, l’erroneità della valutazione effettuata dal giudice in sede di opposizione.

Peraltro, il giudizio espresso dal CTU aveva carattere soltanto probabilistico e pertanto, inidoneo ad escludere la volontarietà delle condotte, da ritenersi invece, pacifiche nella loro materialità e gravità e tali da configurare giusta causa di licenziamento.

D’altra parte, la società aveva documentalmente provato che le condotte contestate si fossero verificate a distanza brevissima dalla comunicazione alla lavoratrice della decisione di congelamento della sua richiesta di trasferimento presso la sede di Catania; pertanto l’origine della reazione di rabbia sarebbe stata scaturita proprio dal fatto di non aver ottenuto il trasferimento richiesto.

Ma il reclamo non è stato accolto.

La Corte d’appello di Milano (sentenza n. 1345/2019) ha fatto proprie le conclusioni contenute nella relazione del ctu, il quale aveva condivisibilmente osservato che “in una persona sana ovvero in sufficiente equilibrio psichico stimoli stressanti o frustranti non generano una reazione emotiva di tale entità”; al contrario, “la crisi documentata aveva caratteristiche di gravità psicopatologica severe e pervasiva tanto a abolire la critica e distorcere profondamente il contatto con la realtà, come emerso dai resoconti dell’episodio annotati durante il ricovero dei clinici. L’episodio critico aveva tutte le caratteristiche psicopatologiche riconosciute dagli psichiatri curanti”.

Ebbene tali conclusioni, a giudizio della corte, erano fondate su una pluralità di elementi oggettivi convergenti, che consentivano di esprimere un giudizio in termini, se non di assoluta certezza, quantomeno di probabilità altamente qualificata, ancorata a concrete e specifiche situazioni di fatto e validata da consolidate acquisizioni della psichiatria.

L’accertamento dell’incapacità naturale

Del resto, in materia di accertamento dello stato di incapacità naturale, la Suprema Corte ha chiarito che essa consiste in ogni stato psichico abnorme, pur se improvviso e transitorio e non dovuto a una tipica infermità mentale o a un vero e proprio processo patologico, che abolisca o scemi notevolmente le facoltà intellettive o volitive, in modo da impedire od ostacolare una seria valutazione degli atti che compiono o la formazione di una volontà cosciente (Cass. n. 7784/1991; n. 7458/2003).

La prova della incapacità naturale può essere data con ogni mezzo o in base a indizi e presunzioni, che anche da soli, se del caso, possono essere decisivi ai fini della sua configurabilità (Cass. n.4344/2000).

Al riguardo è stato anche affermato che “il rigoroso criterio della dimostrazione circa la rispondenza temporale dell’incapacità al compimento dell’atto trova opportuno temperamento nella possibilità di trarre utili elementi di giudizio anche dalle condizioni del soggetto, anteriori e posteriori all’atto; pertanto, specialmente nei casi di anormalità psichiche dipendenti da malattia, l’accertamento di questa, in un determinato periodo, della sua durata e della sua suscettibilità di regresso o di stabilità o di peggioramento, può offrire chiare indicazioni sull’alterazione della sfera intellettiva e volitiva al momento dell’atto (Cass. n. 515/2004).

Ebbene, quanto al caso in esame, anche prima dei fatti che avevano originato il licenziamento erano stati documentati diversi accessi al Pronto Soccorsi, dopo crisi di agitazione psicomotoria o liti violente e ricoveri ospedalieri.

Tanto è bastato ai giudici della corte territoriale per affermare la non imputabilità alla lavoratrice delle condotte addebitate, per difetto di coscienza e volontarietà delle stesse; di talché il licenziamento doveva essere annullato per insussistenza dei fatti contestati, con tutte le conseguenze di cui all’art. 18, comma 4, legge 300/1970, come già statuito dal giudice di primo grado.

Avv. Sabrina Caporale

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