Se il medico privilegia il trattamento più rischioso e la situazione pericolosa si determina, e non viene superata senza danno, la colpa si radica nella scelta inizialmente compiuta

“Le limitazioni della responsabilità medica non si applicano ai casi di imprudenza e negligenza consistiti nell’errore diagnostico, nella mancata attesa degli esiti delle analisi richieste, nell’errata valutazione delle risultanze delle indagini strumentali e nella scorretta gestione dell’emergenza medico chirurgica”, in tali termini ha deciso la Corte d’Appello di Napoli (sentenza n. 2659 del 20 luglio 2020). Il Tribunale di Napoli accoglieva la domanda e condannava l’Azienda Ospedaliera a pagare all’attore la somma di euro 598.274,00 quale ristoro dei pregiudizi derivanti dall’intervento chirurgico al quale era stato sottoposto l’11 dicembre 2000. Il paziente lamentava di avere ricevuto nel novembre del 2000 una errata diagnosi di sospetta neoplasia gastrica.

Dopo una settimana si ricoverava e veniva sottoposto ad intervento di gastrectomia totale, resezione del corpo coda del pancreas, splenectomia, resezione del colon traverso e di linfoadenectomia celiaca più colicisti, senza tuttavia la previa acquisizione dell’esito dell’esame istologico, dal quale, poi, non risultavano note istologiche di malignità.

L’attore, quindi, eccepiva di essere stato sottoposto ad un massivo intervento chirurgico non necessario, essendo affetto soltanto da pseudocisti emorragica a verosimile origine pancreatica.

L’Azienda Ospedaliera impugna la decisione in appello eccependo l’accoglimento acritico della CTU, il danneggiato si costituisce spiegando appello incidentale per il mancato riconoscimento del danno morale.

L’Azienda sanitaria appellante sostiene: la nullità ed erroneità della CTU, che il primo giudice aveva acriticamente recepito, senza considerare la necessità dell’intervento per come effettivamente eseguito, imposta dalle condizioni del paziente ed a prescindere dalla diagnosi di carcinoma gastrico; l’insufficienza della CTU, che non aveva offerto risposta a diversi quesiti posti dal giudice istruttore; l’errata quantificazione del danno, assumendo esorbitante la stima della riduzione del 60% dell’integrità psico-fisica .

La Corte d’Appello dispone nuova CTU.

Le doglianze svolte dall’Azienda Ospedaliera circa la prima consulenza non vengono ritenute fondate in quanto la data di avvio delle operazioni peritali veniva direttamente comunicata in udienza e la circostanza della mancanza del verbale delle operazioni non è motivo di nullità.

Anche la circostanza che il primo Giudice abbia condiviso del plano le conclusioni della CTU non è motivo di nullità.

Ciò precisato dalla Corte, la seconda CTU ha evidenziato che il danneggiato all’atto del ricovero “presentava un quadro clinico ad insorgenza subacuta caratterizzato da epigastralgia ingravescente e che le necessarie indagini strumentali – ecografia e T.C. addome – pur evidenziando la presenza di una massa ovalare da riferire verosimilmente a necrosi, associata a multiple linfoadenopatie celiache, mesenteriche e paraaortiche, non consentivano un inquadramento etiopatogenitico univoco nella neoformazione”.

E’ stata del tutto errata, quindi, la progettazione dell’intervento chirurgico nel corso del quale i Chirurghi riproponevano la diagnosi macroscopica di carcinoma gastrico, senza attendere il referto istologico.

In altri termini, escluso che il paziente fosse affetto da tumore al momento dell’operazione, ogni decisione terapeutica avrebbe dovuto essere preceduta dal necessario approfondimento e che le emergenze note ai sanitari avrebbero dovuto escludere un trattamento chirurgico indifferibile.

L’incertezza diagnostica circa l’origine della neoformazione, in assenza di urgenze, giustificava ed imponeva ulteriori approfondimenti conoscitivi, quali uno specifico esame endoscopico, che avrebbe consentito di studiare meglio la parete delle parti dell’apparato digerente.

Peraltro, i CTU di secondo grado hanno rappresentato che qualora, sulla base delle evidenze scientifiche disponibili prima dell’operazione, fosse stata correttamente diagnosticata al paziente una pancreatite acuta su cronica, “con qualificata probabilità” si sarebbe reso necessario un intervento chirurgico di pancreasectomia sub-totale, epiplonectomia, splenectomia e resezione del colon trasverso, atteso il coinvolgimento di quei distretti da parte del processo necrotico: tale intervento era l’unica opzione terapeutica percorribile nel trattamento della pancreatite necrotico-emorragica.

Al contrario, la gastrectomia radicale e la linfadenectomia celiaca sono da considerarsi overtreatment, perché causalmente ricollegate all’errata diagnosi di carcinoma gastrico e prive di efficacia terapeutica rispetto alla patologia del paziente.

Analogamente l’asportazione della cistifellea non era necessaria, posto che il processo infiammatorio aveva interessato il corpo-coda del pancreas, non coinvolgendone la testa né le contigue vie biliari e la colecisti.

In conclusione i CTU affermano che l’intervento chirurgico praticato fu in parte indispensabile e che il paziente fu vittima di overtreatment per avere subito una gastrectomia totale con linfadenectomia celiaca e colecistectomia non necessarie.

Dall’intervento è derivata una menomazione più gravosa di quella che era lecito attendersi da una corretta risposta chirurgica alla malattia.

E quindi la maggiore lesione si presenta come possibile ed altamente probabile conseguenza dell’inesatto adempimento della prestazione che, alla stregua dei criteri di accertamento del nesso di causalità nel settore della responsabilità civile, giustifica la prova della relazione causale.

L’operato dei Chirurghi viene ricondotto alle ipotesi dell’imprudenza e della negligenza, consistite nell’errata diagnosi, nella mancata attesa degli esiti di analisi istologiche, nell’errata valutazione delle risultanze delle altre indagini strumentali e nella non corretta gestione dei tempi dell’emergenza medico-chirurgica.

Difatti, qualora il Medico privilegi il trattamento più rischioso e la situazione pericolosa si determini, non riuscendo egli a superarla senza danno, la colpa si radica già nella scelta inizialmente compiuta.

I CTU hanno confermato la quantificazione del danno permanente nella misura del 60% e hanno, però, precisato che “ai fini risarcitori deve essere considerato il range menomativo interposto tra il 31% ed il 60% (danno biologico differenziale risarcibile – Danno biologico iatrogeno totale del 60% – danno biologico da menomazione risarcibile attesa del 30%)”.

In altri termini, il danno differenziale risarcibile del 30%  è da intendersi quale misura della alterazione dell’integrità psicofisica del paziente concretamente riferibile all’errore terapeutico.

Viene escluso, quindi, il valore percentuale delle menomazioni conseguenza della parte dell’intervento  effettivamente necessaria al paziente.

Viene quindi liquidato l’importo di euro  347.598,00, corrispondente alla differenza tra euro 489.978,00 – pari ad un danno del 60% in un soggetto di 48 anni d’età – ed euro 142.380,00 – pari ad un danno del 30% in un soggetto di quella stessa età -.

La Corte, inoltre, ritiene di incrementare la misura standard del risarcimento poiché sussistono concretamente conseguenze anomale e particolari che esulano dalla normalità.

Il primo Giudice personalizzava il danno non patrimoniale applicando l’incremento del 20% e motivava tale decisione in considerazione “della presumibile sussistenza delle sofferenze derivanti dalle lesioni patite”.

Tale motivazione, secondo la Corte, è inconsistente perché non indica quali siano le particolari sofferenze meritevoli di incremento.

Invero, il paziente ha dedotto difficoltà di curare in autonomia la sua persona, dell’impedimento alla continuazione dello svolgimento del precedente lavoro dinamico e delle pregresse attività ludiche e relazionali, della sua fragilità nervosa, ma non ha offerto prova adeguata di tali pregiudizi.

I pregiudizi lamentati dal paziente, in particolare la modificazione dello stile di alimentazione,  può ritenersi imposta -secondo la Corte- dalle conseguenze di quella parte dell’intervento chirurgico che era necessario, non già dall’overtreatment, in quanto la scienza medica indica, per l’adattamento alle nuove capacità funzionali del tratto gastrointestinale, una dieta ipolipidica e a basso contenuto di fibre.

Per quanto riguarda, invece, i pregiudizi correlati alla non necessaria resezione gastrica e alla non necessaria linfoadenectomia celiaca consistenti nella perdita di peso e di forza, incapacità di svolgere lavori pesanti e intolleranza ad alcuni alimenti, sorge giustificazione alla personalizzazione del risarcimento.

In sintesi viene ritenuto che le menomazioni subite dal paziente siano personalizzabili nella misura del 10%, in luogo del 20% applicato dal primo Giudice.

Il Tribunale, in conclusione, condanna l’Azienda Sanitaria a corrispondere al paziente l’importo complessivo di euro 503.251,98, oltre alle spese di lite del primo grado di giudizio.

Le spese di secondo grado, invece, attesa la parziale fondatezza dell’appello principale e l’infondatezza di quello incidentale, insieme alla sostanziale soccombenza della Azienda Ospedaliera, vengono integralmente compensate tra le parti.

Le spese delle 2 CTU di primo e secondo grado vengono poste a carico di entrambe le parti per quote uguali.

La decisione qui a commento è senz’altro pregevole per l’attenta -e corretta- disamina in punto di personalizzazione del danno e di concetto di negligenza nel caso di errore diagnostico.

Tuttavia, non si comprende e non si condivide la condanna del danneggiato al pagamento delle spese di lite e della metà delle CTU di primo e secondo grado.

Nel giudizio di primo grado la domanda del danneggiato è stata integralmente accolta e la circostanza che detta Consulenza sia stata, poi, impugnata non giustifica l’attribuzione della metà della spesa al paziente.

Eguale considerazione per la CTU di secondo grado, che andava integralmente posta a carico dell’Azienda Ospedaliera.

Infine, nel giudizio d’Appello la soccombenza dell’Azienda Ospedaliera è sostanziale (come affermato dalla Corte stessa), ergo non si comprende per quale ragione le spese di lite d’appello siano state integralmente compensate tra le parti.

Le stesse andavano, invece, se non poste integralmente a carico della Struttura quantomeno scorporate nella misura di 1/3 – 2/3 tra le parti a seconda del grado di soccombenza.

Avv. Emanuela Foligno

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