Nel caso di suicidio del paziente ricoverato il rapporto tra i familiari e la struttura sanitaria non è di natura contrattuale e soggiace alle regole probatorie e prescrizionali di cui all’art. 2043 c.c.

La questione decisa dalla Suprema Corte proviene dalla Corte d’Appello di Milano e riguarda la richiesta risarcitoria per danno di natura contrattuale formulata jure proprio da tre fratelli in danno dell’Ospedale di Pavia ove era ricoverato il padre, affetto da disturbi psichici, che in regime di ricovero si lanciava da una finestra. I tre fratelli sostenevano a fondamento della loro domanda risarcitoria una omissione di vigilanza da parte del personale sanitario e di misure idonee a scongiurare il suicidio.

Dapprima il Tribunale di Pavia e successivamente la Corte d’Appello di Milano respingevano le domande risarcitorie e la vicenda approda in Cassazione.

Col primo motivo viene ipotizzata violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2043,1218 e 1228 c.c.. I ricorrenti, infatti, censurano la sentenza impugnata per errata riconducibilità dell’azione esperita nella previsione di cui all’art. 2043 c.c., anzichè in quella di cui agli artt. 1218 e 1228 c.c..

Col secondo motivo viene  ipotizzata violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2043 e 2697 c.c., in relazione all’art. 112 c.p.c. poiché, secondo i ricorrenti, anche a ritenere l’azione esperita di natura extracontrattuale  la sentenza della Corte d’Appello di Milano impugnata sarebbe comunque illegittima, non avendo i Giudici di merito ammesso le prove richieste, impedendo così di provare sia la responsabilità  che il quantum della pretesa risarcitoria azionata.

I ricorrenti evidenziano anche che, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte territoriale, dagli atti di causa fosse comunque ricavabile la prova della sussistenza della responsabilità extracontrattuale della struttura sanitaria convenuta, poichè dalla documentazione prodotta risultavano evidenti sia le omissioni che gli errori nel trattamento del paziente, e quindi il nesso causale tra la condotta dalla stessa posta in essere e l’evento suicidario verificatosi.

La Suprema Corte, con la sentenza n. 14258/2020, respinge integralmente il ricorso e considera i motivi proposti infondati avendo la Corte territoriale adeguatamente motivato le ragioni del rigetto della domanda risarcitoria sotto il profilo dell’assenza di prova della quale era onerata parte attrice, dell’esistenza del danno presuntivamente subito, dell’asserito errore sanitario e, soprattutto, del nesso di causa tra lamentata negligente condotta e l’evento per il quale era richiesto il risarcimento.

In particolare viene evidenziato che i ricorrenti hanno esperito azione contrattuale nei confronti della Struttura ospedaliera presso la quale il loro congiunto era stato ricoverato per difficoltà respiratorie sul presupposto di essere “terzi protetti dal contratto”, intervenuto tra il nosocomio ed il paziente.

Invero, i ricorrenti non potevano agire ex contractu.

Ciò chiarito, gli Ermellini ritengono utile rammentare come si atteggi, rispetto allo stesso paziente psichiatrico, la responsabilità contrattuale della struttura nel caso in cui – tentato dallo stesso, senza successo, il suicidio – egli agisca per far valere il danno conseguente all’omissione di terapie, precauzioni o accorgimenti, volti ad impedire il compimento di atti autolesionistici.

La responsabilità per omessa vigilanza di una Struttura sanitaria nei confronti di persona non interdetta, né in regime di T.S.O., ricoverata in reparto psichiatrico è riconducibile nell’alveo contrattuale, ovverosia “quel contratto atipico di assistenza sanitaria che si sostanzia di una serie complessa di prestazioni che la struttura eroga in favore del paziente, sia di natura medica che “lato sensu” di ospitalità alberghiera.

In termini ancora più specifici, è stato affermato – sempre con riferimento a danni patiti da malato psichiatrico a causa di comportamenti autolesionistici – che qualsiasi “struttura sanitaria, nel momento stesso in cui accetta il ricovero d’un paziente, stipula un contratto dal quale discendono naturalmente, ai sensi dell’art. 1374 c.c., due obblighi: il primo è quello di apprestare al paziente le cure richieste dalla sua condizione; il secondo è quello di assicurare la protezione delle persone di menomata o mancante autotutela, per le quali detta protezione costituisce la parte essenziale della cura”.  

Su tali basi, dunque, ricorda la Corte “ai fini della ripartizione dell’onere probatorio, il paziente debba abitualmente provare solo l’avvenuto inserimento nella struttura e che il danno si sia verificato durante il tempo in cui egli si trovi inserito nella struttura (sottoposto alle cure o alla vigilanza del personale della struttura), mentre spetta alla controparte dimostrare di avere adempiuto la propria prestazione con la diligenza idonea ad impedire il fatto”.  

Quindi deve ritenersi che una struttura ospedaliera risponda, contrattualmente, dei danni dei quali chieda il ristoro lo stesso paziente (che lamenti la mancata adeguata vigilanza sulla sua persona, ed in particolare l’omesso impedimento di atti autolesivi), ma non altrettanto può dirsi in relazione all’iniziativa risarcitoria assunta dai suoi stretti congiunti, per far valere, nelle stesse ipotesi, il danno da menomazione del rapporto parentale, o da perdita dello stesso, particolarmente nel caso in cui l’iniziativa autolesionistica del malato, soprattutto quello psichiatrico, si risolva in un suicidio.

In definitiva, il diritto che i congiunti vantano autonomamente ad essere risarciti dalla struttura  in relazione al decesso del paziente si colloca nell’ambito della responsabilità extracontrattuale e pertanto è soggetto al termine di prescrizione quinquennale previsto per tale ipotesi di responsabilità dall’art. 2947 c.c. e alle regole ex art. 2043 c.c.

La caratteristica che distingue la responsabilità contrattuale è il rapporto di relazione paziente-struttura: da qui la responsabilità conseguente alla violazione di un rapporto obbligatorio.

Ne consegue che il danno derivante dall’inadempimento dell’obbligazione non richiede la qualifica dell’ingiustizia, che si rinviene invece nella responsabilità extracontrattuale, perché “ la rilevanza dell’interesse leso dall’inadempimento non è affidata alla natura di interesse meritevole di tutela alla stregua dell’ordinamento giuridico, come avviene per il danno ingiusto di cui all’art. 2043 c.c.” (secondo quanto ritenuto da Cass. Sez. Un., Sent. 22 luglio 1999, n. 500), “ma alla corrispondenza dell’interesse alla prestazione dedotta in obbligazione (arg. ex art. 1174 c.c.), essendo, dunque, “la fonte contrattuale dell’obbligazione che conferisce rilevanza giuridica all’interesse regolato” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 11 novembre 2019, n. 28991).

Le pretese risarcitorie azionate iure proprio dai congiunti del paziente, unica parte della relazione contrattuale, dovevano essere fatte valere ai sensi dell’art. 2043 c.c..

Avv. Emanuela Foligno

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