La vittima, ricoverata presso una comunità di ricovero psichiatrico, decede a causa di una intossicazione farmacologica per volontaria assunzione di dose eccessiva del farmaco Disipal.

I familiari deducono la responsabilità della Comunità per violazione dei doveri di cura, vigilanza e controllo. Entrambi i Giudici di merito rigettano la domanda, la Suprema Corte conferma le sentenze (Cassazione Civile, sez. III, 26/03/2024, n.8109).

La vicenda

La vittima decedeva il 25 aprile 2004 presso la comunità di cura e di ricovero psichiatrico ove era collocata in applicazione della misura di sicurezza di cui all’art. 53 dell’Ordinamento penitenziario, soffrendo di gravi disturbi psichici tali da renderla un pericolo per sé e per gli altri. Il decesso risultava causato da un’accertata intossicazione farmacologica ricondotta alla volontaria assunzione di una dose eccessiva del farmaco Disipal.

Secondo la tesi dei congiunti della vittima, la struttura sarebbe responsabile per:

  • a) dell’omessa vigilanza e controllo della vittima essendosi quest’ultima potuta procurare il medicinale letale o all’interno della medesima struttura ovvero presso l’Ospedale dove era giunta – senza accompagnatore – alle ore 20:59 del 23 aprile 2004 con una diagnosi di tentato suicidio per aver ingerito volontariamente schegge di vetro;
  • b) dell’omessa vigilanza nella notte tra il 24 e il 25 aprile, durante la quale – così come anche confermato dalla paziente con cui condivideva la stanza – quest’ultima avrebbe manifestato una chiara sintomatologia riconducibile ad uno stato di overdose e che avrebbe richiesto un immediato intervento medico.

Pertanto, ove la struttura avesse diligentemente ottemperato agli obblighi nascenti dal contratto di cura, l’evento morte non si sarebbe verificato e ciò, sia perché in tal modo la vittima non avrebbe potuto procurarsi il medicinale letale, sia perché un tempestivo intervento medico idoneo a consentire il superamento della fase acuta della overdose da farmaco avrebbe impedito il decesso.

Tribunale di Bologna e Corte di Appello di Bologna rigettano la domanda di responsabilità.

Nello specifico i Giudici di secondo grado deducevano che non sussisteva un obbligo di continuo monitoraggio, non essendo per la vittima necessario un controllo costante, come confermato dal fatto che lo stesso Magistrato di Sorveglianza aveva da poco rinnovato la misura di custodia che, ferma la permanenza presso la casa di cura, le consentiva di muoversi liberamente presso la struttura e di allontanarsi dalla stessa dalle 7.00 alle 22.00.

Osservavano, inoltre, la non necessità di “controllo costante” anche alla luce del comportamento degli ultimi due giorni di vita della vittima, non essendosi palesati “intenti suicidiari”, poiché “anche l’ingestione del minuscolo pezzetto di vetro avvenuta in carcere, peraltro immediatamente denunciato, va intesa nell’ottica di incentrare l’attenzione su di sé e non certo in vista di un’autosoppressione”.
Dal punto di vista clinico, alla luce delle risultanze della CTU, era “impossibile stabilire la concreta possibilità di intervenire dal punto di vista medico per eliminare gli effetti dell’intossicazione e, quindi, tentare di evitare l’esito mortale” (ossia di “procurare vomito o effettuare una lavanda gastrica e quindi cercare di far superare la fase acuta al paziente mediante assistenza polmonare e cardiovascolare”) e ciò in quanto non si poteva “riuscire a discernere, con rigoroso criterio aprioristico, i sintomi da intossicazione acuta da Orfenadrina rispetto a quelli determinati dalla patologia di cui soffriva la vittima e a quelli indotti dagli altri farmaci che le venivano contemporaneamente somministrati per curare la psico-patologia da cui era affetta”.

Il ricorso in Cassazione

La decisione di Appello viene impugnata in Cassazione (che rigetta), dove si contesta l’obbligo esistente di sorveglianza e controllo della struttura di comunità.

In primo luogo, la Suprema Corte evidenzia che, nel caso in cui l’iniziativa autolesionistica del malato si risolva in un atto suicidiario portato a compimento a causa dell’omessa vigilanza della struttura, la normativa di riferimento è quella della responsabilità extracontrattuale di cui all’art. 2043 c.c. (Cass. n. 14258/2020; Cass. n. 14615/2020; Cass. n. 21404/2021; Cass. n. 11320/2022; Cass. n. 13037/2023).

Con tale pretesa risarcitoria, il congiunto agisce iure proprio, al fine di ottenere il risarcimento del danno da perdita del rapporto parentale conseguente al decesso; non potrebbe, d’altro lato, configurarsi in capo al primo una pretesa azionabile ex art. 1218 c.c., intercorrendo il contratto avente ad oggetto le prestazioni di cura, assistenza e controllo (quale che sia la sua fonte, privatistica o pubblicistica) esclusivamente tra la struttura e la paziente e al quale, dunque, egli rimane estraneo.

Discorrendosi, dunque, di responsabilità extracontrattuale, il Giudice di Appello ha reputato che:

  • a) i farmaci fossero custoditi adeguatamente presso la struttura;
  • b) la misura di prevenzione disposta dal Tribunale di Sorveglianza era elastica;
  • c) non sussistevano obblighi di monitoraggio continui sulla donna, sia in capo alla struttura ospedaliera, in generale, che in capo a coloro che erano di turno nella notte tra il 23 e il 24 aprile 2004, in particolare;
  • d) il comportamento autolesionistico della paziente era riconducibile non ad un serio intento suicidiario, bensì ad un’esigenza di attenzione;
  • e) vi erano concrete difficoltà nel distinguere tra la sintomatologia presentata a causa del suo preesistente disagio psico-fisico e i sintomi aspecifici e generici (così come qualificati dalla CTU disposta in secondo grado) derivanti da overdose di Disipal.

Inoltre, nell’ipotesi di doppia conforme di cui all’art. 348-ter, quinto comma, c.p.c., è onere del ricorrente, a pena di inammissibilità del ricorso, indicare le ragioni di fatto poste a base della decisione di primo grado e del rigetto dell’appello dimostrando che sono tra loro differenti (Cass. n. 5947/2023; Cass. n. 26934/2023). Il ricorrente non ha assolto tale onere, non ha dato contezza di quale sia stato l’iter argomentativo seguito del primo Giudice, nonostante la Corte territoriale abbia integralmente confermato la relativa decisione, ad essa facendo sovente riferimento.

Avv. Emanuela Foligno

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