Accolto il ricorso di un uomo che chiedeva il risarcimento dei danni subiti per la contrazione del virus HCV in seguito a una trasfusione effettuata nel 1965

In caso di patologie conseguenti ad infezione da virus HBV, HIV e HCV, contratte a seguito di emotrasfusioni o di somministrazione di emoderivati, la responsabilità del Ministero della salute va valutata anche per le trasfusioni eseguite in epoca anteriore alla conoscenza scientifica di tali virus e all’apprestamento dei relativi test identificativi, atteso che già dalla fine degli anni ’60 era noto il rischio di trasmissione di epatite virale ed era possibile la rilevazione (indiretta) dei virus, che della stessa costituiscono evoluzione o mutazione, mediante gli indicatori della funzionalità epatica, gravando pertanto sul Ministero della salute, in adempimento degli obblighi specifici di vigilanza e controllo posti da una pluralità di fonti normative speciali risalenti già all’anno 1958, l’obbligo di controllare che il sangue utilizzato per le trasfusioni e gli emoderivati fosse esente da virus e che i donatori non presentassero alterazione della transaminasi. Lo ha chiarito la Cassazione con l’ordinanza n. 21145/2021 pronunciandosi sul ricorso di un cittadino che si era visto respingere, in sede di merito, la domanda volta ad ottenere dal Ministero della Salute il risarcimento dei danni subiti in conseguenza della contrazione del virus HCV avvenuta in seguito ad una trasfusione alla quale si era sottoposto nel 1965.

Il Tribunale aveva rigettato la domanda rilevando che, qualora il Ministero avesse adottato le opportune precauzioni e i dovuti controlli, l’evento del contagio si sarebbe comunque potuto verificare; la Corte di appello aveva confermato la pronuncia di primo grado.

Nel rivolgersi alla Suprema Corte, il ricorrente deduceva che la Corte di appello avrebbe ritenuto rilevante il profilo della prevedibilità del danno al momento dell’omissione della condotta doverosa. Al contrario, la giurisprudenza di legittimità ha espresso una presunzione di colpa, inizialmente per le condotte successive al 1978 e, successivamente, anche per quelle precedenti. Conseguentemente non spettava al danneggiato dimostrare la prevedibilità del danno all’epoca della trasfusione, sulla base delle conoscenze della comunità scientifica internazionale, ma gravava sul Ministero l’onere di dimostrare di avere adottato tutti gli strumenti di prevenzione noti a quel tempo.

Gli Ermellini hanno ritenuto di aderire alla doglianza proposta, accogliendo il ricorso in quanto fondato.

Dal Palazzaccio hanno ricordato che il Ministero della salute, in base ad una pluralità di fonti normative, è tenuto ad esercitare un’attività di controllo e di vigilanza in ordine (anche) alla pratica terapeutica della trasfusione del sangue e dell’uso degli emoderivati, e risponde ex art. 2043 c.c., per omessa vigilanza, dei danni conseguenti ad epatite e ad infezione da HIV contratte da soggetti emotrasfusi.

Dallo stesso quadro normativo in base al quale risultano attribuiti al Ministero poteri di vigilanza e controllo in materia, si evince come fosse già ben noto sin dalla fine degli anni ’60 – inizi anni ’70 del secolo scorso il rischio di trasmissione di epatite virale, la rilevazione (indiretta) dei virus essendo possibile già mediante la determinazione delle transaminasi ALT ed il metodo dell’anti-HbcAgin, e che già da tale epoca sussistevano obblighi normativi in ordine ai controlli volti ad impedire la trasmissione di malattie mediante il sangue infetto; sin dalla metà degli anni ’60 erano infatti esclusi dalla possibilità di donare il sangue coloro i cui valori delle transaminasi e delle GPT – indicatori della funzionalità epatica – fossero alterati rispetto ai limiti prescritti.

Il dovere del Ministero della salute di vigilare attentamente sulla preparazione ed utilizzazione del sangue e degli emoderivati postula l’osservanza di un comportamento informato a diligenza particolarmente qualificata, specificamente in relazione all’impiego delle misure necessarie per verificarne la sicurezza, essendo tenuto ad evitare o ridurre i rischi a tali attività connessi.

E ancora, la Cassazione ha osservato che la colpa della P. A. rimane integrata anche in ragione della violazione dei dovuti comportamenti di vigilanza e controllo imposti dalla normativa, costituenti limiti esterni alla sua attività discrezionale ed integranti la norma primaria del neminem laedere di cui all’art. 2043 c.c., in base alla quale essa è tenuta ad un comportamento attivo di vigilanza, sicurezza ed attivo controllo in ordine all’effettiva attuazione, da parte delle strutture sanitarie addette al servizio di emotrasfusione, di quanto ad esse prescritto al fine di prevenire ed impedire la trasmissione di malattie mediante il sangue infetto, non potendo invero considerarsi esaustiva delle incombenze alla medesima in materia attribuite la quand’anche assolta mera attività di normazione (emanazione di decreti, circolari, ecc.).

Nel caso in esame, di concretizzazione del rischio che la regola violata tende a prevenire, non poteva, dio conseguenza, prescindersi dalla considerazione del comportamento dovuto e della condotta nel singolo caso in concreto mantenuta, e il nesso di causalità che i danni conseguenti a quest’ultima astringe rimaneva invero presuntivamente provato

Da ultimo il Supremo Collegio ha osservato che il Ministero della salute risponde “anche per il contagio degli altri due virus” già “a partire dalla data di conoscenza dell’epatite B”, trattandosi non già di “eventi autonomi e diversi” ma solamente di “forme di manifestazioni patogene dello stesso evento lesivo dell’integrità fisica da virus veicolati dal sangue infetto”; le Sezioni Unite non hanno certamente inteso limitare la rilevanza del fenomeno e la relativa responsabilità alla “data di conoscenza dell’epatite B”.

Era stata invero la Cassazione, nel 2005, ad affermare che fino a quando non erano conosciuti dalla scienza medica i virus della HBV, HIV ed HCV, e, quindi i “test” di identificazione degli stessi, cioè, rispettivamente fino al 1978, 1985 e 1988, ritenendosi l’evento infettivo causato da detti virus per effetto di emotrasfusioni e assunzione di prodotti emoderivati inverosimile, doveva ritenersi difettare il nesso causale fra la condotta omissiva del Ministero della Sanità e tale evento e, a maggior ragione, la colpa del Ministero in presenza di evento imprevedibile, non potendo lo stesso Ministero conoscere la capacità infettiva dei detti virus prima ancora della comunità scientifica.

Superando tale impostazione, le Sezioni Unite del 2008 hanno per converso sottolineato come si tratti di un “rischio che è antico quanto la necessità delle trasfusioni”, legittimando la conclusione poi ripetutamente ribadita dalla Corte, che il Ministero della salute era tenuto, anche anteriormente alle sopra riportate, a controllare che il sangue utilizzato per le trasfusioni o per gli emoderivati fosse esente da virus e che i donatori non presentassero alterazione delle transaminasi; né al risultato di delimitazione temporale della responsabilità del Ministero può invero altrimenti pervenirsi, argomentando in particolare dalla verifica se al momento della effettuazione della emotrasfusione individuata come causa della malattia il virus dell’epatite C fosse già conosciuto e qualificato come tale in particolare dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, dovendo altrimenti escludersi “la regolarità causale tra il mancato controllo del Ministero e l’infezione da epatite C per l’emotrasfusione subita”; alla suindicata attività di vigilanza e controllo nell’interesse pubblico il Ministero della salute è tenuto in adempimento degli obblighi specifici posti da una pluralità di fonti normative speciali risalenti addirittura al 1958, atteso che già la L. n. 296 del 1958, art. 1 attribuisce al Ministero il compito di provvedere alla tutela della salute pubblica, di sovrintendere ai servizi sanitari svolti dalle amministrazioni autonome dello Stato e dagli enti pubblici, provvedendo anche al relativo coordinamento, nonché ad emanare, per la tutela della salute pubblica, istruzioni obbligatorie per tutte le amministrazioni pubbliche che provvedono a servizi sanitari; la trasmissione del virus resa possibile dalla condotta colposa di chi tale evenienza era chiamata ad impedire comporta doversi ritenere al medesimo causalmente ascrivibile la malattia che da quel virus si sviluppi, anche in conseguenza della relativa evoluzione o mutazione, tale evento costituendo integrazione del rischio specifico che la regola violata tende(va) ad evitare.

La redazione giuridica

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