La Corte d’Appello di Lecce, Sez. Taranto, in integrale riforma della decisione del Tribunale di Taranto, ha rigettato la domanda proposta dai figli della vittima per il risarcimento del danno da loro subito in conseguenza della morte della madre deceduta il 24 dicembre 2012. La Cassazione annulla la sentenza di secondo grado (Cassazione Civile, sez. III, 26/04/2024, n.11224).

La vicenda clinica

La paziente era giunta al Pronto Soccorso dell’Ospedale poco dopo le 18 del 23 dicembre 2012, accusando dolore toracico, lacerante e lancinante, forte sudorazione e ipertensione arteriosa.
All’esito della consulenza cardiologica era stata sottoposta ad ECG e a prelievo per dosaggio di enzimi cardiaci, risultato negativo. Quindi, in attesa della rinnovazione di tale esame, da ripetere, secondo protocollo, dopo quattro ore, avuto riguardo all’anamnesi della paziente (la quale aveva riferito di essere affetta da ernia iatale), era stata formulata una prima diagnosi sulla natura gastrica del dolore lamentato.
In attesa della ripetizione del dosaggio degli enzimi cardiaci, la donna era stata spostata in una stanza del Pronto Soccorso adibita a medicheria, ove era rimasta per alcune ore, assistita dalla sorella.
Durante questo lasso di tempo, avvertiva ancora dolori allo sterno, anche se più sopportabili per il fatto che le erano state somministrate delle fiale di Toradol.
Intorno alle 23.30, era stata effettuata la ripetizione degli enzimi cardiaci, che aveva nuovamente dato esito negativo. Poiché tuttavia i dolori avevano ripreso ad aumentare, i sanitari le avevano praticato, intorno alla mezzanotte, una flebo contenente una soluzione per la protezione dello stomaco.
Tra le 00.10 e le 00.40, dopo che la sorella aveva lasciato la stanza di medicheria, la donna aveva avuto un malore ed era stata sottoposta a tentativi di rianimazione. Questi tentativi non avevano purtroppo sortito effetto, perché la paziente era di lì a poco deceduta.

I giudizi di merito

La Corte d’Appello, sulla scorta della CTU espletata in primo grado, ha ritenuto che i figli della vittima non avessero dato la prova del nesso causale tra il decesso della loro madre e l’asserita negligenza od imperizia del personale sanitario, ma ha escluso in radice la condotta inadempiente dei convenuti.

I Giudici di Appello hanno posto alla base del loro ragionamento le conclusioni dei CTU, i quali avevano peraltro corredato l’illustrazione della loro indagine da continue, vigorose e incisive osservazioni sulla circostanza che la stessa era stata condotta in quasi totale assenza di documentazione – fatta eccezione per la consulenza cardiologica assunta in Pronto Soccorso e del certificato di morte – sicché la stessa causa del decesso doveva reputarsi incerta.

Secondo i Consulenti, il primo approccio diagnostico e terapeutico dei medici del Pronto Soccorso era stato corretto, poiché, a valle dell’esame anamnestico e clinico, era stato effettuato l’ECG ed era stato eseguito il prelievo degli enzimi cardiaci, prevedendone altresì la ripetizione dopo quattro ore, in conformità alle regulae artis e alle prescrizioni rinvenibili nella letteratura scientifica. Solo dopo avere escluso la presenza di segni di necrosi miocardica, avrebbe dovuto essere completato il percorso diagnostico, indagando le possibili ulteriori cause del dolore toracico accusato dalla paziente (in particolare, la patologia aortica) attraverso l’espletamento di ulteriori accertamenti strumentali, quali, in particolare, l’ecocardiogramma, l’esame radiologico del torace, la RM e l’angio-TAC.

La cartella clinica incompleta

La Corte di Lecce ha ritenuto che la evidente carenza della cartella clinica e la mancanza di un referto necroscopico certo e inoppugnabile potessero essere surrogati dal “quadro probatorio ed indiziario univocamente favorevole all’assenza di responsabilità medica e di nesso causale”, ed in particolare dal “dettagliato ed accurato racconto degli eventi fatto dalla parente della vittima quasi nell’immediatezza ai Carabinieri”.
Così i giudici di Appello hanno escluso ogni negligenza o imperizia nella condotta dei medici, reputando incensurabile la condotta degli stessi, i quali avevano deciso di mantenere la paziente in attesa, sottoponendola a terapia antidolorifica, nelle more del completamento del percorso diagnostico per malattia miocardica.

L’atteggiamento attendista dei sanitari

Da un lato, secondo la Corte di merito, l‘atteggiamento attendista dei sanitari sarebbe stato giustificato proprio dalla circostanza che, alla stregua delle dichiarazioni della parente, il dolore si era fatto “più sopportabile”. Dall’altro lato, dopo l’esito negativo del secondo dosaggio degli enzimi cardiaci, la situazione era apparsa “ancora del tutto tranquilla” sino alle ore 00.10, mentre l’aggravamento delle condizioni si era verificato “nel giro di una mezz’ora improvvisamente”.
Pertanto, sempre secondo la Corte di Lecce “non vi fu il tempo materiale … dopo la mezzanotte del 23 e nelle primissime ore del 24 dicembre 2012 né di sottoporre la paziente ad esami strumentali non certo di routine, quali la TC o la RM … né, tantomeno, ottenutane una chiara indicazione per l’intervento chirurgico d’urgenza (per altro consigliato con discrete possibilità di sopravvivenza del paziente, soltanto in alcuni casi di dissezione aortica), sarebbe stato materialmente possibile organizzare un’equipe di cardio-chirurghi adeguatamente specializzati, con relativa assistenza di anestesisti-rianimatori e personale di sala chirurgica, difficilmente disponibile in un Ospedale secondario, sicché la paziente, priva di coscienza, doveva essere in ipotesi trasportata presso la più vicina struttura ospedaliera all’uopo attrezzata”.

Il ricorso in Cassazione

La sentenza di appello viene impugnata relativamente al nesso causale e la Corte di Cassazione accoglie la censura.

I Giudici di Appello, pur utilizzando la corretta premessa in diritto sulla distribuzione degli oneri probatori, ha tuttavia formulato il suo giudizio incorrendo in diversi errori, sia in iudicando che in procedendo, ed omettendo la considerazione di fatti storici decisivi e discussi.

In primo luogo non è stato attribuito alcun peso alla circostanza che la documentazione sanitaria, nonché carente, era quasi del tutto inesistente, riducendosi alla consulenza cardiologica acquisita in Pronto Soccorso e al certificato di morte. Cosicché non solo non si era potuta adeguatamente ricostruire l’evoluzione clinica, ma la stessa causa del decesso era rimasta incerta, sebbene essa fosse stata formalmente (ma non del tutto affidabilmente) indicata, nel predetto certificato necroscopico, in un aneurisma disseccante dell’aorta.

Un primo errore in iure della Corte d’appello è stato, dunque, non tenere conto di tale rilevata e palese carenza documentale in funzione della formulazione del giudizio di responsabilità della struttura sanitaria: in tal modo, infatti, è stato violato il principio fondato sul rilievo che la carenza della documentazione sanitaria acquisibile presso la struttura non può ridondare a detrimento del paziente.

E ancora “l‘eventuale incompletezza della cartella clinica è circostanza di fatto che il giudice può utilizzare per ritenere dimostrata l’esistenza di un valido legame causale tra l’operato del medico e il danno patito dal paziente allorché proprio tale incompletezza abbia reso impossibile l’accertamento del relativo nesso eziologico e il professionista abbia comunque posto in essere una condotta astrattamente idonea a provocare la lesione” (ex multis, Cass. n.12218/2015; Cass. n. 27561/2017; Cass. n. 26248/2020).

La denuncia della parente della vittima non può sopperire alle carenze della cartella clinica

E ancora assolutamente sorprendente e disancorato da qualsivoglia principio giuridico il fatto che la Corte di Lecce abbia ritenuto che la denuncia-querela presentata dalla sorella della vittima nella immediatezza fosse idonea a sopperire alla insufficiente documentazione contenuta nella cartella clinica e che abbia finanche potuto surrogare la lacunosità della documentazione sanitaria in ordine alla natura ed evoluzione della patologia e all’attività clinica, diagnostica e strumentale effettuata dai sanitari dell’Ospedale.

Sotto tale profilo la sentenza di Appello è nulla

Ad ogni modo, una volta deciso di attribuire “peso determinante” alle circostanze riferite in sede di denuncia-querela, la Corte di Lecce doveva esaminare la circostanza storica –assolutamente decisiva (avuto riguardo alle conclusioni dei CTU) –, relativa alla “persistenza” della sintomatologia algica, la quale era verosimilmente diminuita durante l’intervallo temporale in cui il Toradol aveva prodotto i suoi effetti, per poi tornare ad aumentare.

Altro errore della Corte leccese si ravvisa laddove ha ritenuto che, anche ammettendo un tempestivo approccio al percorso diagnostico strumentale finalizzato all’accertamento della (eventuale) patologia aortica, tale percorso avrebbe comportato la necessità di eseguire esami “non certo di routine”, i quali non sarebbero stati “probabilmente nemmeno disponibili in un presidio ospedaliero di secondaria importanza”.

Avv. Emanuela Foligno

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