Il Giudice, in caso di consulenze tecniche con esiti difformi non può aderire acriticamente ad una di esse senza farsi carico di sviluppare un’analisi comparativa con le altre

Il mancato esame delle risultanze della CTU integra un vizio della sentenza che può essere fatto valere, nel giudizio di cassazione, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., risolvendosi nell’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti. Tale vizio ricorre anche nel caso in cui nel corso del giudizio di merito siano state espletate più consulenze tecniche, in tempi diversi e con difformi soluzioni prospettate, ed il giudice si sia uniformato alla seconda consulenza senza valutare le eventuali censure di parte e giustificare la propria preferenza, limitandosi ad un’acritica adesione ad essa, ovvero si sia discostato da entrambe le soluzioni senza dare adeguata giustificazione del suo convincimento mediante l’enunciazione dei criteri probatori e degli elementi di valutazione specificamente seguiti. E’ il principio richiamato dalla Cassazione nell’ordinanza n. 14599/2021 relativamente a un caso di responsabilità medica che aveva visto una coppia agire nei confronti di una struttura sanitaria e due medici, in proprio e quali genitori esercenti la potestà sul figlio minore, per sentirli condannare, in solido, il risarcimento dei danni che assumevano dagli stessi causati al ragazzo in occasione di un ricovero ospedaliero protrattosi dal 15 gennaio al 2 marzo 2000. Nello specifico, gli attori deducevano che, lo stesso giorno della nascita (avvenuta in altra struttura ospedaliera), il neonato era stato trasferito presso l’ospedale convenuto per problematiche correlate a ipoglicemia e a difficoltà respiratorie e lamentavano che i sanitari del nosocomio non avessero tempestivamente diagnosticato e trattato la patologia di ipopituitarismo congenito da cui era poi risultato affetto il minore, determinando un pregiudizio definitivo al suo sviluppo psico-motorio.

Espletata c.t.u. medico-legale, il Tribunale aveva accolto la domanda degli attori, rilevando che per diverse settimane non erano stati “effettuati gli accertamenti necessari per giungere alla diagnosi effettiva della malattia congenita” del paziente e “per iniziare la terapia sostitutiva, essenziale per contrastare l’evoluzione negativa del gravissimo deficit congenito” e concludendo che una percentuale pari al 50-60% degli esiti invalidanti presenti nel bambino (valutabili complessivamente nel 100%) fosse “da attribuire al ritardo diagnostico e terapeutico operato dai sanitari”.

Da li la condanna dei convenuti a pagare, in solido, 891.493,00 euro (oltre accessori) in favore del minore e 439.150,00 euro (oltre accessori) in favore dei genitori.

La Corte di appello, tuttavia, disposti due successivi rinnovi della c.t.u. medico-legale, aveva riformato la sentenza di primo grado, rigettando integralmente la domanda risarcitoria degli attori. Nello specifico, il Collegio distrettuale aveva ritenuto che non fosse emersa la prova che la condizione patologica del paziente fosse ascrivibile ad un comportamento sanitario inadempiente, atteso che “non v’è stato alcun ritardo nel caso oggetto del presente giudizio, ma solo l’attuazione dei comuni protocolli di indagine, tesi ad escludere di volta in volta le patologie più frequenti” e considerato, comunque, che anche una diagnosi effettuata anzi tempo “non avrebbe minimamente interferito […] sul trattamento della patologia sofferta dal bambino”, non essendo “possibile affermare che sia ‘più probabile che non’ che una tempestiva diagnosi della grave patologia neurologica del neonato avrebbe escluso o ridotto la condizione di ritardo nello sviluppo psichico” di cui risulta affetto il minore, rimanendo invero “prevalente, e di gran lunga (volendo esplicitare in termini percentuali = più del 70%), il giudizio che sia più probabile che anche in caso di tempestiva diagnosi della patologia congenita il danno cerebrale del neonato sarebbe stato lo stesso di quello diagnosticato ed accertato successivamente”.

Nel rivolgersi alla Suprema Corte, i genitori del ragazzo denunciavano l'”omesso esame delle risultanze della CTU, con riferimento all’art. 360, n. 5 c.p.c.”: i ricorrenti censuravano, in particolare, l’assunto che ai sanitari non fosse ascrivibile un comportamento inadempiente, rilevando che la stessa c.t.u. aveva riconosciuto che si era verificato un ritardo diagnostico e che vi era stato un contagio da sepsi di origine nosocomiale; contestavano poi alla Corte di non aver tenuto conto della “variabile legata alle conseguenze della sepsi”, la cui pacifica origine nosocomiale avrebbe richiesto una prova liberatoria che non era stata fornita dai convenuti; lamentavano, inoltre, che la Corte non avesse considerato la necessità che “il ctu fornisca precisazioni in merito alla condotta omissiva dei sanitari palesemente conclamatasi allorquando vennero omesse per diverse giornate le rilevazioni della glicemia e le somministrazioni di soluzione glucosata” e concludevano che, “nonostante le suddette, numerose, perplessità, tutte fondate su dati scientifici, sollevate dalla parte ricorrente, rimaste inevase ad opera della Ctu, la Corte territoriale ha comunque ritenuto valide le conclusioni dell’Ausiliaria, sulle quali ha acriticamente basato la decisione oggi impugnata”.

Con altro motivo i ricorrenti deducevano “violazione e falsa applicazione dell’art. 112 cpc, in riferimento all’art. 360, n. 3 e n. 5 cpc” rilevando che, sin dall’atto di costituzione in appello, la difesa della famiglia del danneggiato aveva espressamente “evidenziato come la sepsi contratta in ospedale avesse aggravato la condizione di base del paziente, in uno con il conseguente uso di pesante terapia antibiotica”; tale fatto era stato oggetto di discussione sin dal primo grado di giudizio (e nel corso delle operazioni di consulenza) ma era stato totalmente omesso nella relazione della Ausiliaria (che aveva “considerato la sepsi come “mera esimente” per il ritardo diagnostico e non [aveva] compiuto alcuna indagine sulla reale natura della infezione, sulla sua origine e sulla corretta applicazione delle linee guida esistenti in tema di prevenzione, da parte del Nosocomio”); nella sentenza, si leggeva solamente “che la sepsi ha avuto origine nosocomiale ma che è stata trattata correttamente”, senza “nessun accenno, però, in punto di nesso causale tra la presenza delle infezioni e gli odierni reliquati” del ragazzo. Pertanto, l’infezione doveva “essere considerata quantomeno in rapporto concausale con i danni psico motori del paziente, avendo innegabilmente comportato un aggravamento della condizione del paziente, per come riconosciuto dal Consulente tecnico d’ufficio e dagli stessi Consulenti delle controparti”.

Gli Ermellini hanno ritenuto di aderire alle argomentazioni proposte, cassando la sentenza impugnata con rinvio alla Corte territoriale.

La Cassazione ha infatti precisato che “ricorre il vizio di cui all’art. 360 n. 5 c.p.c. allorquando, a fronte di successive consulenze tecniche d’ufficio che siano pervenute a risultati difformi, il giudice aderisca acriticamente ad una di esse senza farsi carico di sviluppare un’analisi comparativa con le altre consulenze, che risulta imprescindibile laddove le conclusioni recepite non siano, per genericità o apoditticità o inconcludenza, idonee a palesare, da sole, le ragioni della adesione espressa dal giudicante”. Da lì la decisione di accogliere il ricorso “alla luce di tali principi e tenuto conto sia della obiettiva inidoneità delle affermazioni contenute nella relazione di c.t.u. recepita dalla sentenza impugnata a palesare le ragioni delle proprie conclusioni, sia della mancata effettuazione, da parte della Corte di Appello, di un’analisi comparativa fra tali conclusioni e quelle della c.t.u. espletata in primo grado”.

La redazione giuridica

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