L’uomo era morto per una embolia polmonare sopraggiunta in occasione della rimozione del gesso applicato dopo una operazione

Con l’ordinanza n. 10346/2021 la Cassazione si è pronunciata sul ricorso presentato dai congiunti di un paziente deceduto per una embolia polmonare asseritamente dovuta a malpractice medica, che si erano visti respingere, in sede di merito, la domanda volta ad ottenere il risarcimento dei danni, patrimoniale e non patrimoniali, subiti per la perdita del loro caro. Quest’ultimo era stato sottoposto ad un intervento chirurgico per la lesione di un tendine e trattato, in sede post-operatoria, con apparecchio gessato e terapia eparinica, prima dai medici della struttura sanitaria fino alle dimissioni e poi dal medico di base, alla quale aveva riferito di un episodio di dispnea, di cui però il medico, effettuando una visita domiciliare sia quel giorno sia il giorno successivo, non aveva ravvisato elementi compatibili con un rischio trombotico, annotando un “episodio lipotimico” con abbassamento della pressione, trattato e risolto nel corso della visita. In occasione della rimozione del gesso, mentre il fisiatra effettuava manovre per verificare la funzionalità dell’arto, l’uomo era stato colto da trombo-embolia massiva dell’arteria polmonare, come sarebbe stato accertato dall’anatomopatologo, ed era deceduto.

Il Tribunale adito, disposta una CTU, aveva rigettato la domanda ritenendo condivisibili le risultanze della CTU sia quanto alla non esigibilità di una diversa e maggiore somministrazione di eparina sia quanto all’assenza di nesso causale tra il comportamento dei sanitari ed il danno con riguardo alle attività poste in essere dall’azienda, dal medico di base e dal fisiatra.

La Corte d’Appello aveva confermato la decisione di primo grado rilevando che:

  • nel 2004 – epoca dei fatti- sul rapporto tra obesità e profilassi doveva essere esclusa la doverosità (e quindi l’esigibilità) da parte dei medici di una condotta diversa da quella effettivamente posta in essere che avrebbe scongiurato il decesso, con particolare riguardo alle dosi di eparina somministrate;
  • che, in ogni caso, mancava la prova che una condotta alternativa avrebbe scongiurato il decesso;
  • che l’accertamento del CTU, circa la correttezza del riferimento alle dosi indicate nelle schede tecniche, era da condividere avendo il medesimo anche confutato le osservazioni critiche di parte;
  • che il rischio di tromboembolia massiva polmonare conseguente all’immobilizzazione non si era reso palese al medico di base in occasione della crisi del 16 dicembre in assenza di sintomatologia;
  • che il ruolo causale del fisiatra nella produzione del decesso era nullo;
  • che non erano fondate le censure degli appellanti sul fatto che l’onere probatorio in ordine al nesso causale incombesse necessariamente sui danneggiati, dovendosi ritenere esclusa, secondo la regola del più probabile che non, la colpa professionale dei sanitari coinvolti;
  • che le prove storiche di cui si chiedeva l’acquisizione erano ininfluenti in una vicenda dall’elevato tecnicismo, da risolversi in base a valutazioni basate su documenti descriventi con estrema oggettività il quadro clinico e le terapie praticate, e non anche in base a percezioni soggettive.

Nel rivolgersi alla Suprema Corte, i ricorrenti censuravano la sentenza impugnata, tra gli altri motivi, per aver limitato – e poi escluso – l’accertamento del nesso causale al rapporto quantità di farmaco/decesso senza considerare che le linee guida per la terapia antitrombotica prevedevano un monitoraggio settimanale, che il paziente era stato sottoposto ad un solo esame del sangue, peraltro risultato al di sotto del range terapeutico di un soggetto in terapia eparinica, senza che il medico curante disponesse ulteriori accertamenti.

I Giudici Ermellini, tuttavia, hanno evidenziato che i Giudici del merito avevano correttamente applicato i principi sul nesso causale in base ai quali, “è il danneggiato a dover provare il nesso causale tra il danno e la condotta del sanitario in base al principio del ‘più probabile che non’, mentre solo all’esito dell’assolvimento, da parte del danneggiato di tale suo onere probatorio, è onere della parte debitrice provare la causa imprevedibile ed inevitabile dell’impossibilità esatta della prestazione”.

Nel caso in esame i ricorrenti pretendevano di sentir, invece, affermare che, nella solo postulata incertezza del nesso causale tra il comportamento dei medici ed il danno (incertezza assente nel caso in esame), l’onere dell’incertezza debba ricadere sui medici curanti, o che comunque gli stessi avrebbero dovuto dare prova dell’inefficacia di una soluzione alternativa a quella sperimentata.

La sentenza, avendo escluso in radice la prova del nesso causale da parte del creditore, si collocava nell’ormai consolidato riferito indirizzo giurisprudenziale secondo il quale “è sempre il creditore a dover provare l’inadempimento ed il nesso di causalità mentre, solo all’esito di tale prova assolta dal creditore, il debitore deve provare l’adempimento o la causa esterna imprevedibile o inevitabile alla stregua dell’ordinaria diligenza e dell’impossibilità sopravvenuta della diligenza professionale”.

La redazione giuridica

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