Frattura somatica L1 per infortunio sul lavoro, datore condannato

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utilizzabilità atti indagine penale

L’imputato era accusato di lesioni colpose in danno di un lavoratore che aveva riportato una frattura somatica L1 dopo essere stato colpito alla testa da un carico non assicurato

Con la sentenza n. 35829/2021 la Cassazione ha respinto il ricorso del Presidente del Consiglio di amministrazione di una Soc. Cooperativa , condannato in sede di merito per il reato di cui all’art. 590 cod. pen., aggravato dalla violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro. Nello specifico, l’imputato era accusato di avere cagionato lesioni personali di durata superiore a 40 giorni a un lavoratore, consistite in una “frattura somatica L1”.

Secondo la ricostruzione offerta dai giudici di merito nelle due sentenze conformi, in occasione del sinistro occorso, il danneggiato era stato chiamato a svolgere attività di movimentazione di pile di cartoni, posizionate su bancali, mediante utilizzo di un carrello elevatore dotato di forche di sollevamento. Durante l’operazione di sollevamento di due colli sovrapposti – ciascuno del peso di kg. 160 – il carico superiore, non assicurato in alcun modo, gli rovinava addosso, colpendolo alla testa.

I giudici di merito individuavano a carico dell’imputato profili di colpa specifica consistiti nella mancata previsione del rischio collegato allo spostamento delle merci e nella mancata formazione del lavoratore.

Nel rivolgersi alla Suprema Corte, il ricorrente deduceva, tra gli altri motivi, erronea applicazione della legge penale in relazione agli artt. 590, commi 1, 2 e 3 cod. pen.; 37, comma 1, lett. B), d.lgs. 81/2008. La difesa riteneva che i giudici di merito non avessero fatto buon governo delle norme richiamate, trascurando di considerare il principio di “autoresponsabilità del lavoratore” sostenuto nei più recenti indirizzi della giurisprudenza di legittimità (cfr. Sez. 4, sent. n. 8883 del 3 marzo 2016).

La citata pronuncia, secondo la difesa, riguardante un caso assimilabile a quello in esame, pur ribadendo che il comportamento negligente del lavoratore non possa costituire, a determinate condizioni, ragione di esonero da responsabilità per il datore di lavoro, ha precisato come il modello della normativa antinfortunistica abbia subito nel tempo lente trasformazioni, abbandonando l’indirizzo “iperprotettivo” ed approdando alla diversa concezione di una necessaria collaborazione tra datore di lavoro e lavoratore dipendente: nell’ambito di tale modello gli obblighi di protezione sono ripartiti tra più soggetti e coinvolgono anche lo stesso lavoratore, il quale deve osservare la massima diligenza e prudenza nello svolgimento dell’attività.

Alla luce di tale indirizzo i giudici di merito avrebbero dovuto mandare assolto il datore di lavoro, essendo emersa una responsabilità dell’infortunato nel corso delle operazioni di carico delle merci: la persona offesa, particolarmente esperta, non avrebbe impiegato l’ordinaria diligenza nello svolgimento dei compiti affidatigli; di contro, il datore di lavoro aveva posto in essere tutte le necessarie attività per garantire la sicurezza sul luogo di lavoro. A detta di un testimone, incaricato di svolgere accertamenti sul caso, il transpallet manovrato dalla persona offesa procedeva a scatti nella fase di partenza e arresto. Tale circostanza avrebbe dovuto rendere evidente agli occhi del dipendente, da decenni impiegato nella movimentazione dei carrelli, la pericolosità del trasporto di pile sovrapposte di colli. Il comportamento serbato dal danneggiato, il quale aveva anche ammesso di avere posto in essere una manovra sbagliata, avrebbe quindi interrotto il nesso causale, essendo eccentrico rispetto al rischio che il garante era chiamato a governare.

Gli Ermellini, tuttavia, hanno ritenuto di non aderire alle argomentazioni proposte.

La Cassazione ha spiegato infatti che il principio di ‘autoresponsabilità del lavoratore’, invocato, non era richiamato a proposito. “Effettivamente la giurisprudenza di questa Corte ha, in tempi recenti, avvertito l’esigenza di segnalare come il sistema della normativa antinfortunistica si sia evoluto, passando da un modello “iperprotettivo”, interamente incentrato sulla figura del datore di lavoro, quale soggetto garante investito di un obbligo di vigilanza assoluta sui lavoratori, ad un modello “collaborativo” in cui gli obblighi sono ripartiti tra più soggetti”.

“Tale orientamento – proseguono dal Palazzaccio – nasce dalla constatazione che la normativa contenuta nel T.U. 2008/81 impone anche ai lavoratori di attenersi a specifiche disposizioni cautelari e comunque di agire con diligenza, prudenza e perizia. Da ciò scaturisce una maggiore considerazione del coinvolgimento della responsabilità del lavoratore in caso d’infortunio (c.d. “principio di autoresponsabilità del lavoratore”), che induce a tenere conto, nella valutazione del rischio eccentrico e della prevedibilità dell’evento, del criterio della “dominabilità umana del fattore causale”.

La citata pronuncia ribadisce tuttavia i confini entro i quali è consentito fare ricorso al c.d. principio di autoresponsabilità, limite rappresentato dall’assenza di violazioni antifortunistiche da parte del datore di lavoro. Si precisa infatti che il datore di lavoro non risponde delle lesioni personali derivate da una condotta esorbitante del lavoratore soltanto ove si accerti che abbia effettuato una valutazione preventiva di tutti i rischi connessi allo svolgimento di una determinata attività ed abbia fornito al lavoratore i relativi dispositivi di sicurezza, adempiendo alle obbligazioni proprie della sua posizione di garanzia.

Il caso in esame – per i Giudici della Suprema Corte – non era in alcun modo assimilabile a quello oggetto di considerazione nell’ambito della pronuncia citata. I giudici di merito, con argomentazioni puntuali ed esaustive, avevano evidenziato come il datore di lavoro fosse incorso in precise violazioni della normativa antinfortunistica, mancando di prevedere nel DVR lo specifico rischio a cui era esposto il lavoratore nella fase di sollevamento e trasporto dei colli a cui era addetto. Il rischio della caduta di colli sovrapposti, movimentati attraverso l’uso del carrello elevatore, com e spiegato nella sentenza impugnata, era reso evidente dal fatto che il carrello procedesse a scatti, soprattutto nelle fasi di avvio e di arresto del veicolo, determinando l’oscillazione del carico. I rilievi difensivi erano dunque privi di fondamento: incontestata la dinamica dell’infortunio, determinato dalla caduta dall’alto di due pile sovrapposte di colli, rimaneva ferma la responsabilità del datore di lavoro per non avere previsto lo specifico rischio a cui era esposto il lavoratore, del tutto prevedibile sulla base delle circostanze evidenziate nelle sentenze di merito.

In argomento la giurisprudenza di legittimità ha più volte ribadito come, in tema di prevenzione degli infortuni, il datore di lavoro sia tenuto a redigere e sottoporre ad aggiornamento il documento di valutazione dei rischi previsto dall’art. 28 del d.lgs. n. 81 del 2008, all’interno del quale devono essere indicati in modo specifico i fattori di pericolo a cui è concretamente esposto il lavoratore, in relazione alla singola lavorazione o all’ambiente di lavoro e le misure precauzionali ed i dispositivi adottati per tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori con riferimento ai rischi individuati.

La redazione giuridica

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