La possibilità di recuperare l’IVA è subordinata al presupposto che la Società, al momento dell’emissione delle fatture attive, non sapeva o non poteva ragionevolmente sapere che tale cessione era da considerare nulla perché oggetto di frode

L’Agenzia delle Entrate ha risposto ad un’istanza di interpello proposta da una s.r.l., la quale riferiva di essere stata vittima di una truffa, posta in essere da un tale che aveva predisposto ordini di acquisto (per merce mai richiesta), contattato i trasportatori e, poi, dirottato la merce in luoghi a sua disposizione per poi venderla in nero a terzi.

Tale merce era stata, nel frattempo regolarmente fatturata dall’Istante, che solo in seguito si rendeva conto dell’inesistenza dei relativi crediti perché disconosciuti dagli ignari clienti.

Non avendo, infatti, motivi per ritenere non veritieri gli ordini che le pervenivano nel corso del 2014 e del 2015 attraverso il suo Agente (ordini successivamente acclarati come falsi), la società aveva contabilizzato i relativi ricavi negli anni di competenza, facendoli concorrere alla determinazione del reddito d’impresa.

Ebbene, poiché nel corso del 2017 è intervenuta (e divenuta definitiva) la sentenza che ha accertato tali ordini come falsi, l’Istante ha ritenuto che “quei ricavi dovessero essere stornati, ad ogni effetto – contabile, civilistico e tributario – attraverso una registrazione contabile successiva (…) che esprima la sopravvenienza dell’evento”.

La soluzione prospettata dall’Agenzia delle Entrate

L’agenzia fiscale ha innanzitutto, chiarito che la possibilità di effettuare la rettifica dell’imposta, dopo l’emissione e la registrazione di una fattura attiva, è disciplinata dall’articolo 26 del d.P.R. n. 633 del 1972 (in seguito, “articolo 26”), che recepisce l’articolo 90 della Direttiva 2006/112/CE del 28 novembre 2006.

In particolare, il comma 2 del citato articolo 26 riconosce al cedente il diritto di portare in detrazione l’imposta corrispondente alla variazione, registrandola a norma dell’articolo 25 del medesimo d.P.R., quando l’operazione viene meno in tutto o in parte “in conseguenza di dichiarazione di nullità, annullamento, revoca, risoluzione, rescissione e simili” nonché “per mancato pagamento in tutto o in parte a causa di procedure concorsuali o di procedure esecutive individuali rimaste infruttuose”.

Quando infatti, il passaggio dei beni avviene indipendentemente dalla volontà del cedente – del tutto assente (come nell’ipotesi di furto) ovvero artatamente manipolata (come nell’ipotesi di truffa) – mancano i presupposti per sottoporre la “cessione” all’IVA, circostanza che sulla base di quanto affermato dall’Istante sembrava essersi verificata nel caso in esame.

In particolare, nella fattispecie in commento, pur mancando i requisiti per l’assoggettamento ad IVA dell’operazione, quest’ultima era stata fatturata dalla Società in regime di imponibilità e l’imposta era stata versata dall’Istante senza esercitare in concreto la rivalsa.

Per recuperare detta imposta, nelle ipotesi di furto o truffa – fa sapere l’Agenzia delle Entrate –  sussiste la possibilità di emettere note di variazione ai sensi dell’articolo 26, ovviamente nel presupposto che alla luce di elementi oggettivi, al momento dell’emissione delle fatture attive, il contribuente non sapeva e non poteva ragionevolmente sapere che si trattasse di un furto o di una truffa.

Con riferimento a una fattispecie analoga, infatti, la Corte di Giustizia ha affermato che il diritto alla rettifica “potrà tuttavia essere negato al suddetto acquirente qualora si accerti, alla luce di elementi oggettivi, che (…) egli sapeva o non poteva ragionevolmente ignorare che la realizzazione di tale cessione era incerta” (cfr. sentenza del 31 maggio 2018, cause riunite C-660/16 e C-661/16, punti 49, 51 e dispositivo).

Ne consegue che la possibilità da parte dell’Istante di recuperare l’IVA mediante l’emissione delle note di variazione è subordinata al presupposto che la Società, al momento dell’emissione delle fatture attive, non sapeva o non poteva ragionevolmente sapere che tale cessione era da considerare nulla perché oggetto di frode da parte del suo Agente.

Tale condizione va accertata sulla base di elementi oggettivi, la cui verifica è rimessa al controllo dell’amministrazione finanziaria.

Ciò posto, l’Agenzia delle Entrate ha anche, chiarito che l’emissione della nota di variazione consente l’esercizio del diritto alla detrazione dell’imposta solo nei termini individuati dall’articolo 19 del d.P.R. n. 633 del 1972, ossia “al più tardi con la dichiarazione relativa all’anno in cui il diritto alla detrazione è sorto ed alle condizioni esistenti al momento della nascita del diritto medesimo”.

Nel caso di specie, il dies a quo, coincideva con l’irrevocabilità della sentenza che aveva accertato la truffa, ossia il 5 settembre 2017. Risultava, pertanto, spirato il termine previsto dal citato articolo 19.

A ogni modo, l’Agenzia fiscale ha disposto, ferma l’impossibilità di presentare una dichiarazione integrativa IVA, per recuperare l’imposta a suo tempo versata, la possibilità per l’Istante di avvalersi dell’articolo 30-ter del decreto IVA e dunque, di richiedere entro il 5 settembre 2019, la restituzione dell’imposta versata.

La redazione giuridica

Leggi anche:

OMESSO VERSAMENTO IVA: L’IMPORTANZA DELLA DICHIARAZIONE ANNUALE

- Annuncio pubblicitario -

LASCIA UN COMMENTO O RACCONTACI LA TUA STORIA

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui