Incapacità lavorativa specifica in favore del neonato (Cass. Civ. sez. III, 20 gennaio 2023, n. 1752).

Incapacità lavorativa specifica e generica in favore di un neonato.

La Suprema Corte chiarisce la differenza tra incapacità lavorativa generica e specifica e si sofferma sulla risarcibilità del danno da incapacità lavorativa specifica in favore del neonato.

La decisione a commento è così massimata:  “La lesione della capacità lavorativa generica è componente del danno biologico e pertanto non è autonomamente liquidabile. Diversamente, il danno alla capacità lavorativa specifica è di natura patrimoniale e può essere risarcito quale lucro cessante con specifico riferimento alla attività lavorativa svolta dal soggetto danneggiato”.

I genitori del bambino citano a giudizio l’azienda ospedaliera invocando il ristoro del danno biologico subito dal figlio durante il parto e del danno patrimoniale e non subito dagli stessi

Il Tribunale accertava la responsabilità della Struttura e la condannava a corrispondere alla madre la somma di euro 7.963,00, al bambino per danno non patrimoniale la somma di euro 200.834,00.

L’Assicurazione propone appello e la Corte riduce l’importo per il danno non patrimoniale in favore del bambino ad euro 62.621,66, ma riconoscendo ulteriori importi pari a 42.000,00 euro e 25.000,00 euro, rispettivamente in favore della madre e del padre, a titolo di danno da grave lesione del rapporto parentale. Inoltre, la Corte d’Appello riconosceva in favore del bambino il danno patrimoniale da perdita di chance derivante dalla compromissione della capacità lavorativa per euro 25.000,00.

L’Assicurazione propone ricorso per Cassazione lamentando, in sintesi, la differenza tra danno alla capacità lavorativa generica e specifica; e l’applicazione errata del danno da lesione parentale, con specifico riferimento alla soglia minima di gravità delle lesioni.

La CTU quantificava il danno biologico permanente patito dal bambino nella misura del 10% e dunque, secondo l’Assicurazione, essendo le lesioni lievi non sarebbe consentito un danno non patrimoniale ai genitori.

Nell’attualità, in punto di giurisprudenza, gli orientamenti non sono univoci sull’esistenza di una soglia minima di gravità delle lesioni ai fini del riconoscimento del danno non patrimoniale ai congiunti.

Dieci anni or sono (25729/2014) si è sostenuto che fosse necessaria la prova di lesioni “seriamente invalidanti”.

Invece, (17058/2017; 2788/2019)  successivamente si è sostenuto che sarebbe sufficiente che la persona sia “ferita in modo non lieve”.

Con la sentenza a commento viene confermato quest’ultimo, e più recente, indirizzo che pare avere abbandonato il concetto di “macrolesione”, precisando che l’art. 139 cod. ass. determina come massimo livello delle microlesioni il 9%, ma non pone alcun limte normativo per il danno parentale nel senso che possa sussistere soltanto se gli effetti stabiliti dal danno biologico sul congiunto siano particolarmente elevati.

Del resto, la Suprema Corte negli ultimi anni (25541/2022; 7748/2020 e 11212/2019) ha sancito che il danno riflesso può essere riconosciuto ogni qual volta che il congiunto provi di avere subìto un danno in conseguenza delle lesioni patite dal suo familiare.

Sotto questo aspetto, la decisione della Corte d’Appello viene confermata.

Le doglianze inerenti la liquidazione del danno patrimoniale sono state, invece, accolte. Esaminando la CTU i Giudici di appello hanno confuso i concetti di capacità lavorativa generica e di capacità lavorativa specifica.

Secondo la Corte territoriale le precisazioni dei CTU non erano idonee a superare i confini della capacità lavorativa generica e inoltre trattandosi di un bambino non è possibile dimostrarne le potenzialità e le inclinazioni di talchè non può discorrersi di un concreto danno patrimoniale in termini lavorativi, neppure come ipotesi di chance.

Pertanto, la Suprema Corte ha cassato la sentenza rinviandola ad altra sezione della Corte d’Appello.

§§§

Si impongono le seguenti osservazioni

La decisione a commento rimarca la distinzione tra capacità lavorativa generica e capacità lavorativa specifica.

La prima è l’attitudine astratta della vittima a svolgere un lavoro. Tale attitudine è una componente del danno biologico, insuscettibile di autonoma liquidazione.

La seconda è la capacità di svolgere la specifica attività lavorativa che esercitava prima del sinistro, o quella che avrebbe potuto svolgere potenzialmente in base alle sue attitudini. Siamo, dunque, nell’alveo del danno patrimoniale.

Ai fini del risarcimento, il danneggiato deve dimostrare (anche presuntivamente),  di non poter più svolgere il lavoro che svolgeva in precedenza, oppure di non poter più svolgere quel lavoro che, verosimilmente, avrebbe avuto la concreta possibilità di svolgere.

Secondo la Suprema Corte, la Corte d’Appello avrebbe frainteso un passaggio della CTU, ove il Consulente faceva riferimento alla impossibilità per il minore “una volta diventato adulto” di “lavorare in contatto con le polveri ne avrebbe potuto svolgere attività subacquea o di pilota per la necessità di evitare brusche variazioni barometriche”.

Ebbene, anche se il CTU circoscriveva la incapacità lavorativa del danneggiato in determinati settori, la Cassazione ritiene, in considerazione dell’età del danneggiato, che non sia possibile dimostrare “le effettive inclinazioni e potenzialità”.

Per contro, si segnala che in altre decisioni sempre di legittimità, è stato riconosciuto il danno patrimoniale da incapacità lavorativa specifica anche in favore di soggetto minorenne, che non svolgeva attività lavorativa, facendo riferimento alle circostanze del caso concreto come l’età, il suo ambiente sociale e la sua vita di relazione (Cass. civ., 15 aprile 1996, n. 3539).

Ovviamente, più il danneggiato è di giovane età, più è controversa la questione della posta risarcitoria in argomento.

Ad esempio, nel caso in cui il danneggiato sia in età scolare superiore, è certamente possibile ipotizzare in quale ambito lavorativo avrebbe potuto collocarsi. Purtroppo, nel caso di bambini, e soprattutto di neonati, ci si domanda come è possibile ipotizzare il lavoro che egli avrebbe svolto.

La decisione della Cassazione evidenzia chiaramente tale criticità laddove evidenzia come non sia possibile prevedere quale attività lavorativa avrebbe svolto un neonato.

Avv. Emanuela Foligno

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