La registrazione di conversazioni è prova documentale se a effettuarla è uno dei partecipanti. È quanto ha stabilito la Sesta Sezione Penale della Cassazione in una recente sentenza

La Corte di Cassazione ha affermato che in tema di prove, la registrazione fonografica di conversazioni o comunicazioni realizzata, anche clandestinamente, da chi vi abbia partecipato o sia stato comunque autorizzato ad assistervi non è riconducibile alla nozione di intercettazione ma costituisce prova documentale, a condizione che il suo autore abbia effettivamente e continuativamente partecipato o assistito alla conversazione registrata.

Nel caso in esame, un soggetto indagato per reati amministrativi aveva impugnato l’ordinanza con la quale il Tribunale di Milano aveva confermato il decreto di sequestro probatorio di un telefono cellulare e di altri beni, rinvenuti durante la perquisizione della propria abitazione.

Secondo l’ordinanza impugnata, il fumus delicti che legittimava il sequestro probatorio si evinceva dal contenuto di un file, contenente una traccia audio, consegnato agli inquirenti da un giornalista che riproduceva una conversazione intervenuta tra l’indagato ed alcuni funzionari russi. La conversazione registrata aveva ad oggetto un accordo illecito per la retrocessione di importanti somme di denaro a favore di un partito politico e di alcuni funzionari russi, coinvolti nella trattativa della vendita di prodotti petroliferi. In particolare, in un passaggio della conversazione, si chiariva come fosse già stato raggiunto un accordo i cui termini essenziali erano riportati in uno screenshot di appunti.

Ad avviso della difesa la registrazione era frutto di captazione illecita e pertanto, l’ordinanza doveva ritenersi illegittima.

Ma i giudici della Suprema Corte (Terza Sezione, n. 5782/2019) hanno respinto il ricorso, condividendo l’assunto espresso dal Tribunale di Milano secondo cui in sede cautelare reale, la registrazione fonografica rileva quale mera notizia di reato posta a fondamento del sequestro probatorio finalizzato alla ricerca della prova e non quale prova documentale su cui fondare la penale responsabilità dell’imputato. Ebbene, nel caso in esame, il giornalista, che aveva l’obbligo di dire la verità, aveva confermato di essere stato presente nella hall dell’albergo, nel momento in cui si svolgeva il colloquio, anche se non era riuscito a percepirne ogni parola; questi, inoltre, aveva riconosciuto i presenti ed aveva sostenuto che il file-audio consegnato all’inquirente fosse “frutto di una registrazione audio in diretta”, sottolineando che alcuni fatti riportati agli inquirenti erano stati da lui personalmente riscontrati; gli altri gli erano stati riferiti da sue fonti che avevano ne avevano una conoscenza diretta.

Per queste ragioni, il ricorso è stato rigettato con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Avv. Sabrina Caporale

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