Lea applicati subito nelle carceri, questa la richiesta della Società Italiana di Medicina Penitenziaria: alto rischio contagio da ex detenuti.

I medici penitenziari lanciano un allarme: “Lea applicati subito nelle carceri”. E chiedono un nuovo approccio per la salute nei penitenziari.
E’ quanto emerge a Roma dal Congresso della Società Italiana di Medicina Penitenziaria e della Società per le malattie infettive.
“Bisogna prendere in carico i detenuti da quando entrano in carcere, con screening e test, e non più soltanto quando c’è una malattia conclamata”, spiega Sergio Babudieri, di Uni Sassari e Direttore Scientifico di Simspe.
E aggiunge, “la metà dei detenuti malati è inconsapevole della patologia di cui soffre. Bisogna evitare che tornando in libertà infettino altre persone”.
Dai dati presentati al Congresso si evince che solo 1 detenuto su 3 non è malato, e i numeri più preoccupanti riguardano le malattie infettive.
Gli Hiv positivi sarebbero infatti circa 5.000, e ben 6.500 i portatori attivi del virus dell’epatite B. Tra il 25 e il 35% dei detenuti è affetto da epatite C: una forbice compresa tra i 25mila e i 35mila detenuti all’anno.

Epatite C in carcere

Proprio l’epatite C, spiegano gli specialisti, costituisce un esempio emblematico dei benefici che si potrebbero trarre dai nuovi Lea: dal primo giugno l’Agenzia Italiana del Farmaco ha reso possibile la prescrizione dei nuovi farmaci innovativi che eradicano il virus.
Oltre 30mila detenuti potrebbero usufruire di queste cure per guarire, ma anche per non contagiare altri nel momento del ritorno alla libertà.
Gli stranieri rappresentano il 34% della popolazione carceraria italiana, oltre la metà è portatrice latente di tubercolosi.
“La detenzione – dicono i medici penitenziari – è un’occasione unica per monitorare il loro stato di salute”. Nel 2016 sono transitate nei 190 istituti penitenziari italiani oltre centomila detenuti.
“È una sfida impegnativa – afferma Babudieri – “si tratta di un quantitativo ingente di individui, soggetti peraltro a un continuo turn-over e talvolta restii a controlli e terapie.
Un lavoro enorme, di competenza della salute pubblica: senza un’organizzazione adeguata. Pur avendo i farmaci a disposizione, si rischia di non riuscire a curare questi pazienti”.
 
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