Spetta al datore di lavoro il compito di provare l’impossibilità di “repêchage” del dipendente con riferimento alla situazione esistente al momento del licenziamento

Tale onere probatorio gravante sulla parte datoriale deve ritenersi ancor più pregante nelle ipotesi in cui il licenziamento riguardi personale con mansioni non altamente qualificate.

La vicenda

Nel 2014, la società datrice di lavoro licenziava per giusta causa una propria dipendente assunta con contratto di lavoro subordinato part-time, a tempo indeterminato, con mansioni di pulitrice ed inquadramento nel 2 livello del CCNL di riferimento.

Il licenziamento veniva dichiarato illegittimo con sentenza definitiva della Corte di appello di Roma.

L’anno successivo, la società comunicava alla dipendente di procedere ad un nuovo licenziamento per giustificato motivo oggettivo costituito dalla impossibilità di una sua ricollocazione, a causa della intervenuta soppressione della posizione lavorativa precedentemente occupata, con assorbimento delle mansioni e dell’orario dalla stessa osservati dal personale rimasto in servizio e dell’insussistenza di ulteriori posizioni di lavoro sia equivalenti, sia di livello inferiori ove ricollocarla.

Licenziamento illegittimo

Ma anche in questo caso, il licenziamento veniva dichiarato illegittimo con ordine di immediata reintegrazione della lavoratrice nel posto di lavoro e diritto al risarcimento del danno commisurato a tutte le mensilità della retribuzione globale di fatto dalla data del recesso, oltre alla regolarizzazione contributiva previdenziale ed assistenziale.

Il Tribunale di Roma, adito in sede di opposizione, dichiarava risolto il rapporto dalla data di licenziamento e condannava la società al pagamento di 18 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto; rigettava, invece, la sussistenza della natura discriminatoria o ritorsiva del licenziamento.

La pronuncia della Corte d’appello

All’esito del giudizio di secondo grado la Corte d’appello di Roma rigettava i reclami proposti nei confronti della pronuncia di primo grado, ritenendo 1) corretta l’impostazione del Tribunale che aveva accertato l’esistenza delle circostanze dedotte come motivi di licenziamento, ma non aveva ritenuto le stesse tali da giustificarlo; 2) a fronte, infatti, della dimostrata soppressione dello specifico posto di lavoro, la società non aveva fornito sufficiente prova della possibilità di impiegare la lavoratrice in un posto di lavoro con mansioni equivalenti; 3) la società non aveva fornito, quindi, idoneo riscontro probatorio di avere ottemperato all’obbligo di repêchage su di essa gravante, peraltro ancora più pregnante trattandosi di mansioni non altamente qualificate; 4) dagli atti era emerso che la società, nel corso dell’anno 2015, aveva incrementato le assunzioni ed aveva concluso ulteriori quattro contratti di appalto, con conseguente assunzione di nuovo personale nella misura di 25 unità; 5) il licenziamento non poteva considerarsi discriminatorio.

I giudici della Sezione Lavoro della Cassazione (n. 26460/2019) hanno confermato la pronuncia della Corte territoriale poiché conforme agli orientamenti di legittimità attualmente esistenti in materia.

Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo

Infatti, è stato affermato (Cass. 2.5.2018 n. 10435) che, in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, la verifica del requisito della “manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento” previsto dall’art. 18 St. Lav., comma 7, come novellato dalla L. n. 92 del 2012, concerne entrambi i presupposti di legittimità del recesso e, quindi, sia le ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa, sia l’impossibilità di ricollocare altrove il lavoratore (cd. “repechage”). Ebbene, fermo restando l’onere della prova che grava sul datore di lavoro ai sensi della L. n. 604 del 1966, art. 5, la “manifesta insussistenza” va riferita ad una evidente, e facilmente verificabile sul piano probatorio, assenza dei suddetti presupposti, che consenta di apprezzare la chiara pretestuosità del recesso”.

Inoltre, è stato specificato (Cass. 8.1.2019 n. 181) che l’insufficienza probatoria in ordine all’adempimento dell’obbligo di “repechage” non è sussumibile nell’alveo della manifesta insussistenza del fatto, contemplata dall’art. 18 St. lav., comma 7 citato, con la conseguenza che in tali ipotesi, deve essere applicata la tutela risarcitoria in assenza di una prova sufficiente dell’impossibilità di reperire una posizione lavorativa compatibile con la professionalità del lavoratore licenziato.

La conferma della decisione di merito

Nel caso in esame, la Corte di appello rilevando che la società non avesse fornito prova sufficiente della possibilità di impiegare la lavoratrice in un posto di lavoro con mansioni equivalenti e confermando la tutela risarcitoria già disposta in prime cure, si era sostanzialmente adeguata ai suddetti principi di dritto. E ciò in quanto spetta al datore di lavoro provare l’impossibilità di “repechage” con riferimento alla situazione esistente al momento del licenziamento, incombendo, infatti, su di esso l’onere di allegare e dimostrare l’inesistenza di altri posti di lavoro cui utilmente ricollocare il lavoratore.

A tela condivisibile conclusione, i giudici della Suprema Corte hanno aggiunto che la mancanza di allegazioni del lavoratore riguardo l’inesistenza di una posizione disponibile può corroborare il quadro probatorio circa l’impossibilità di essere adibito altrove qualora tale impossibilità sia accertata attraverso presunzioni gravi, precise e concordanti, ma non sposta il profilo dell’onere della prova del rispetto del relativo obbligo che grava pur sempre sul datore di lavoro in virtù del disposto della L. n. 604 del 1966, art. 5.

In definitiva, il ricorso è stato rigettato.

La redazione giuridica

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