Viola l’obbligo di fedeltà e di correttezza il lavoratore che per ben quattordici giorni si assenta dal lavoro senza comunicare il proprio stato di detenzione per spaccio di stupefacenti

“L’obbligo di fedeltà del lavoratore va inteso in senso ampio e si estende a comportamenti che per la loro natura e le loro conseguenze appaiano in contrasto con i doveri connessi all’inserimento del lavoratore nella struttura e nell’organizzazione dell’impresa o creino situazioni di conflitto con le finalità e gli interessi dell’impresa”.

La vicenda

La Corte di appello di Roma, in riforma della sentenza del Tribunale di Cassino, aveva dichiarato legittimo il licenziamento per giusta causa disposto dal datore di lavoro ad un proprio dipendente, per avere quest’ultimo comunicato il proprio stato di privazione della libertà personale soltanto dopo quattordici giorni dall’arresto per detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti.

A fondamento della decisione la corte aveva osservato che il solo fatto di essere rimasto assente dal lavoro per quattordici giorni, senza comunicarne le effettive ragioni al proprio datore di lavoro, costituisse violazione degli obblighi di correttezza e di buona fede nell’esecuzione del rapporto, tanto grave da determinare il venir meno del vincolo fiduciario.

La Sezione Lavoro della Cassazione (sentenza n. 24976/2019) ha confermato la decisione per le ragioni che seguono.

La Corte di appello aveva compiutamente valutato la fattispecie sottoposta al suo esame: sia sul piano oggettivo, ricostruendo in modo analitico lo svolgersi dei fatti, tra il giorno dell’arresto e la comunicazione dello stato di detenzione; sia sul piano soggettivo, ponendo in rilievo come dalla loro sequenza emergesse la precisa volontà del lavoratore di non fare risultare le vere ragioni dell’assenza dal lavoro; e aveva poi, ritenuto che l’avere taciuto “per ben 14 giorni di assenza dal lavoro”- come era stato accertato – il proprio stato di detenzione, costituisse violazione degli obblighi di correttezza e buona fede che incombono sul dipendente nell’esecuzione del rapporto e che detta condotta, imponendo un giudizio prognostico negativo circa la correttezza del futuro adempimento, fosse di gravità tale da giustificare il recesso del datore di lavoro.

In tal modo la Corte di appello di Roma si era uniformata al consolidato orientamento giurisprudenziale secondo il quale “il giudizio di proporzionalità tra fatto addebitato al lavoratore e licenziamento disciplinare non va effettuato in astratto, bensì con specifico riferimento a tutte le circostanze del caso concreto, all’entità della mancanza (considerata non solo da un punto di vista oggettivo, ma anche nella sua portata soggettiva e in relazione al contesto in cui essa è stata posta in essere), ai moventi, all’intensità dell’elemento intenzionale e al grado di quello colposo” (Cass. n. 4881/1998, fra le molte conformi).

La decisione

È altrettanto consolidato, nella giurisprudenza di legittimità ,l’orientamento, per il quale, in tema di procedimento disciplinare, “il giudizio di proporzionalità tra violazione contestata e provvedimento adottato si sostanzia nella valutazione della gravità dell’inadempimento del lavoratore e dell’adeguatezza della sanzione, tutte questioni di merito che, ove risolte dal giudice di appello con apprezzamento in fatto adeguatamente giustificato con motivazione esauriente e completa, si sottraggono al riesame in sede di legittimità” (cfr. Cass. n. 24349/2006; conformi, fra le molte: n. 7948/2011; n. 8293/2012).

D’altra parte – hanno aggiunto gli Ermellini – “gli artt. 2104 e 2105 c.c., richiamati dalla disposizione dell’art. 2106 relativa alle sanzioni disciplinari, non vanno interpretati restrittivamente e non escludono che il dovere di diligenza del lavoratore subordinato si riferisca anche ai vari doveri strumentali e complementari, che concorrono a qualificare il rapporto obbligatorio di durata, avente ad oggetto un facere, e che l’obbligo di fedeltà vada inteso in senso ampio e si estenda a comportamenti che per la loro natura e le loro conseguenze appaiano in contrasto con i doveri connessi all’inserimento del lavoratore nella struttura e nell’organizzazione dell’impresa o creino situazioni di conflitto con le finalità e gli interessi dell’impresa” (Cass. n. 11437/1995).

Avv. Sabrina Caporale

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