Respinto il ricorso di una lavoratrice che chiedeva il ristoro del danno da demansionamento e mobbing per essere stata adibita a mansioni dequalificanti e gravose, incompatibili con il suo stato di salute

Aveva convenuto in giudizio la società datrice di lavoro, lamentando di avere subito una serie di comportamenti asseritamente illeciti. La donna, nello specifico, deduceva di essere stata assunta quale cassiera per poi essere illegittimamente spostata ai reparti commerciali di vendita, per essersi rifiutata di prestare attività nelle giornate di domenica; lamentava poi di essere stata adibita a mansioni dequalificanti e gravose, incompatibili col suo stato di salute, in assenza di preventiva visita di idoneità e senza mezzi individuali di protezione e di avere osservato un orario diverso e deteriore rispetto a quello contrattualmente pattuito e precedentemente osservato; infine sottolineava di essere stata costretta a svolgere compiti in contrasto con le prescrizioni del medico competente oltre a evidenziare una serie di comportamenti datoriali a suo avviso scorretti quali, ad esempio, il rifiuto della società di consegnarle la copia delle timbrature richieste.

La lavoratrice chiedeva dunque la condanna dell’azienda al risarcimento del danno da demansionamento e mobbing, oltre a differenze retributive, comprese indennità cassa e maneggio denaro.

In primo grado il Tribunale accoglieva parzialmente la domanda, condannando la convenuta al pagamento di € 28.695,76 per danno biologico e morale, ma la decisione veniva ribaltata in appello.

La lavoratrice ricorreva dunque per cassazione ma anche la Suprema Corte, con l’ordinanza n. 2004/2020, rigettava il ricorso in quanto inammissibile.

In particolare, i Giudici Ermellini, hanno ritenuto corrette le osservazioni del Giudice a quo in relazione al ritardo, lamentato dall’attrice, “nell’effettuazione della richiesta visita medica di idoneità e nella consegna dei mezzi individuali di protezione”, in quanto “era attribuibile anche al comportamento della lavoratrice”, ossia alle sue “ripetute e prolungate assenze”. Inoltre, quanto  al rifiuto datoriale di consegnare alla lavoratrice il ‘foglio presenze’,  i giudici hanno riconosciuto “il diritto del lavoratore di conoscere eventuali ore di straordinario” ma hanno aggiunto che, in questo caso, la dedotta “mancata consegna del ‘foglio timbrature’ costituiva “un episodio isolato, non idoneo a concretare il comportamento vessatorio della società” lamentato dalla dipendente.

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