Osteosintesi del malleolo peronale e infezione (Corte Appello Venezia, sez. IV, 13/10/2022, n.2215).

Osteosintesi del malleolo peronale e successiva infezione nosocomiale.

Il paziente conveniva in giudizio dinnanzi al Tribunale di Treviso l’Azienda U.L.S.S. onde sentirla condannare al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali patiti per responsabilità medica, allorché a causa di un incidente sul lavoro a lui occorso il giorno 2.11.2010, a seguito del quale riportava una “frattura biossea (tibia e perone sinistri) distale scomposta”, era stato ivi ricoverato e sottoposto il 5.11.2010 a un intervento chirurgico di “osteosintesi del malleolo peronale, con applicazione di placca e inchiodamento tibiale”.

L’attore deduceva di essere stato dimesso il 10.11.2010 e che il 24.11.2010 si recava nuovamente presso lo stesso Ospedale per una “infezione dei mezzi di sintesi”, diagnosticata dai medici in data 27.11.2010 e ricondotta al batterio Enterobacter Aerogenes e di essere stato sottoposto a terapia antibiotica, restando ricoverato per circa un mese.

In particolare, all’esito della visita eseguita dall’infettivologo il giorno 21.12.2010, veniva riscontrato un generale miglioramento e prescritto la prosecuzione della terapia orale antibiotica “sino alla rimozione dei mezzi di sintesi, con controllo ogni due settimane con esami” e che i medici della struttura avevano deciso di intervenire dopo soli due giorni, il 23.12.2010, rimuovendo una prima parte dei mezzi di sintesi, e ancora che al momento della dimissione, in data 29.12.2010, i sanitari avevano prescritto la prosecuzione della terapia antibiotica “per ulteriori 15 giorni”.

Il successivo 1.3.2011 insorgeva una nuova infezione che lo aveva costretto ad altro ricovero presso lo stesso Ospedale, ove veniva sottoposto a terapia antibiotica sino al 18.3.2011, allorché i medici intervenivano per la rimozione della seconda parte dei mezzi di sintesi. Aveva poi seguito terapie riabilitative e continuato la cura con antibiotici, come prescritto, per sei/otto settimane.

Il Tribunale di Treviso, riportandosi per relationem alle risultanze di cui all’elaborato peritale, ritenute logiche e chiaramente argomentate, rigettava le domande risarcitorie sul rilievo della mancanza di evidenza di prova dell’asserito errore medico e/o di colpe commesse dalla struttura ospedaliera.

Il paziente impugna la decisione e si duole del fatto che il primo Giudice abbia acriticamente condiviso le valutazioni e considerazioni dell’elaborato del C.T.U., le cui conclusioni ritiene infondate, lamentando altresì il fatto che l’incarico peritale veniva conferito a un medico-legale, anziché a un infettivologo.  Con il secondo e il terzo motivo lamenta l’errato giudizio reso dal C.T.U. e condiviso dal primo Giudice, in merito all’interpretazione degli esiti della visita eseguita dall’infettivologo in data 21.12.2010, allorché quest’ultimo prescriveva controlli a cadenza quindicinale “fino alla rimozione dei mezzi di sintesi”, sul rilievo che tale ultima espressione non poteva essere intesa quale diagnosi di guarigione rispetto alla prima infezione, né poteva ritenersi riferita al primo intervento eseguito il 23.12.2010, sicché risultava a suo dire provato che la sospensione della cura antibiotica dopo soli 15 giorni dall’intervento aveva influito causalmente sull’emergere della seconda infezione.

Preliminarmente la Corte evidenzia l’estraneità al giudizio di appello delle considerazioni critiche, già mosse dalle parti al C.T.U. per il tramite dei propri CTP, che non siano state trasfuse in specifici motivi di impugnazione della sentenza, formulati nel rispetto delle prescrizioni, stabilite dall’art. 342 c.p.c..

Ciò posto,  il secondo e il terzo motivo inerenti l’errato giudizio reso dal C.T.U. e condiviso dal primo Giudice, in merito all’interpretazione degli esiti della visita eseguita dall’infettivologo in data 21.12.2010, laddove questi prescriveva controlli a cadenza quindicinale “fino alla rimozione dei mezzi di sintesi”, sono inammissibili.

Sostiene il paziente che tali indicazioni non avrebbero dovuto essere intese quale “guarigione” dalla prima infezione batterica accertata, a seguito di osteosintesi del malleolo, e che l’espressione “fino alla rimozione dei mezzi di sintesi” non poteva essere riferita al primo intervento eseguito il 23.12.2010, nel corso del quale solo una parte degli stessi erano stati rimossi, bensì al secondo intervento di rimozione definitiva eseguito a marzo 2011 proprio in seguito all’insorgere della seconda infezione.

Con il quarto motivo si censura quella parte della sentenza in cui il Giudice di primo grado ha ritenuto, sulla base delle valutazioni del C.T.U., che il secondo batterio, ove pure entrato in contatto con l’organismo del paziente al momento dell’intervento, sarebbe rimasto latente fino al mese di marzo 2011, a seguito di un periodo di “assoluta negatività clinica e laboristica”, sicché la seconda infezione che aveva colpito l’attore doveva considerarsi “ulteriore” e sopravvenuta in modo autonomo rispetto alla prima, successiva all’oseosintesi del malleolo.

L’inammissibilità, può riguardare anche solo alcuni dei motivi di gravame, e risiede nel fatto che l’impugnativa proposta con i sopra richiamati motivi, più che essere diretta a contrastare le motivazioni in base alle quali il Tribunale ha ritenuto di condividere le risultanze della C.T.U. espletata, che appaiono logiche e coerenti, mira a ribaltare le conclusioni alle quali il C.T.U. stesso è pervenuto rispondendo al quesito posto dal Giudice.

In effetti, l’appellante non fa che riproporre censure già formulate in prime cure e discusse nella fase istruttoria, anche per il tramite del proprio CTP, alle cui osservazioni il C.T.U. ha puntualmente risposto.

La puntuale disamina da parte del Giudice di primo grado delle risultanze della C.T.U. avrebbe richiesto quindi maggiore “specificità” delle censure.

I tre motivi d’appello non superano pertanto il vaglio d’inammissibilità ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 342 c.p.c., non potendo consistere l’impugnativa nella generica affermazione della non condivisione dei risultati del CTU senza che vengano introdotti elementi nuovi, non considerati, o argomenti a carattere clinico-epidemiologico idonei a incrinare il fondamento logico-giuridico su cui la decisione del primo Giudice è fondata.

Con il primo e il sesto motivo l’appellante lamenta la condivisione acritica delle risultanze della C.T.U. pervenendo erroneamente ad escludere la sussistenza di condotte colpose imputabili ai sanitari dell’Azienda ULSS convenuta con riferimento alla seconda infezione da lui contratta e diagnosticata a marzo 2011.

Le censure sono infondate e vengono rigettate.

In tema di responsabilità civile, il nesso causale è regolato dal principio di cui agli artt. 40 e 41 c.p., per il quale un evento è da considerare causato da un altro se il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo, nonché dal criterio della cosiddetta causalità adeguata, sulla base del quale, all’interno della serie causale, occorre dar rilievo solo a quegli eventi che non appaiano – ad una valutazione ex ante – del tutto inverosimili, ferma restando, peraltro, la diversità del regime probatorio applicabile, in ragione dei differenti valori sottesi ai due processi: nel senso che, nell’accertamento del nesso causale in materia civile, vige la regola della preponderanza dell’evidenza o del “più probabile che non”, mentre nel processo penale vige la regola della prova “oltre il ragionevole dubbio” (per tutte Cass. 23197/18, Cass. n. 47/17, Cass. n. 23933/13; Cass. n. 16123/10).

Nel caso in esame il nesso causale materiale ha formato oggetto, in primo grado, dell’accertamento peritale che a parere della Corte di Appello viene considerato esaustivo.

Non vi è prova che i dati clinici, laboristici e microbiologici suggerissero l’opportunità di proseguire la terapia antibiotica oltre i 15 giorni prescritti all’atto della dimissione del paziente dall’Ospedale, atteso che, come pure appurato dal C.T.U., la rimozione dei mezzi di sintesi era stata correttamente effettuata.

Il CTU ha concluso affermando che “(…) Non vi è alcuna correlazione tra la sospensione della terapia antibiotica con Levofloxacina, avvenuta dopo 15 giorni dalla dimissione, e l’insorgenza della seconda infezione” e ancora che “(…) la decisione di sospendere l’antibiotico era giustificata dall’evidenza di guarigione della prima infezione (negatività clinica, indici di flogosi normalizzati, negatività colturale…): essendo l’infezione guarita, è evidente l’indicazione a sospendere la terapia”.

I sanitari dell’Ospedale hanno adempiuto correttamente alla prestazione medica di osteosintesi del malleolo resa in favore del paziente a seguito dell’infortunio e non sono ravvisabili profili di negligenza o di imprudenza o imperizia e neppure inosservanza di leggi e regolamenti ordini o discipline, che abbiano reso anche solo “relativamente più probabile” l’insorgere della seconda infezione contratta dall’appellante a marzo 2011, né risulta provato che la presunta maggior diligente condotta dell’Ospedale avrebbe evitato la stessa.

L’appello viene rigettato e la sentenza impugnata confermata in toto.

Avv. Emanuela Foligno

Sei vittima di errore medico o infezione ospedaliera? Hai subito un grave danno fisico o la perdita di un familiare? Clicca qui

Leggi anche:

Gastrectomia totale e successivo insorgere di fistola

- Annuncio pubblicitario -

LASCIA UN COMMENTO O RACCONTACI LA TUA STORIA

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui