La ritardata diagnosi di neoplasia prostatica che conduce al decesso del paziente configura una perdita di chances di sopravvivenza (Tribunale di Aosta, Sentenza n. 115/2021 del 20/04/2021- RG n. 139/2019)

Il paziente danneggiato, e successivamente i suoi eredi, citano a giudizio lo Specialista Urologo e l’Azienda Regionale Sanitaria onde vederli condannati al ristoro dei danni patiti in conseguenza della ritardata diagnosi di neoplasia prostatica.

In particolare, viene dedotto che il Medico specialistico, operante in regime intramurario, nonostante la sintomatologia riferita e i dubbi espressi dal paziente stesso, solo con grave ritardo avrebbe diagnosticato la patologia riducendo le possibilità di guarigione.

La causa viene istruita mediante CTU Medico-Legale e il Tribunale ritiene la domanda fondata.

I CTU hanno concluso “il paziente, al momento della prima visita urologica effettuata (nds. Giugno 2013) era un soggetto di 65 anni che lamentava problemi di disfunzione erettile (da circa due anni) e importante nicturia (3-4 volte per notte), getto ipovalido e saltuaria urgenza minzionale. Al di là delle probabili incongruenze della certificazione, certamente a novembre 2015 vi erano indubbi motivi di allarme, soprattutto se confrontati con i precedenti esami clinici e bioumorali. In particolare, quanto segnalato nel certificato di novembre 2015 e forse già presente a maggio 2014: “presenza di una placca di Induratio Penis Plastica a carico del corpo cavernoso di sinistra” (non segnalata nelle visite precedenti, nonostante il paziente fosse stato indagato per problemi di disfunzione erettile), è opportuno chiedersi se fosse realmente attribuibile all’esordio di una malattia di La Peyronie o non si trattasse piuttosto di un primo segnale di secondarietà neoplastica. Il riscontro di un aumento tanto considerevole del PSA (almeno otto volte rispetto al precedente controllo), seppur a distanza relativamente breve da un’infezione delle vie urinarie, doveva essere valutato con maggior attenzione, riprogrammando a brevissima distanza di tempo (entro un mese), il controllo di tale marker. Il comportamento tenuto dal Sanitario nella sfortunata vicenda, che interessò il paziente, non è esente da responsabilità, in quanto vi erano da tempo indubbi motivi di allarme. L’età e l’evoluzione clinica, dovevano indicare approfondimenti diagnostici mirati, come biopsia prostatica certamente a novembre 2015 e con criterio di prudenza anche da settembre 2015 (esame obiettivo prostatico e persistenza della sintomatologia urologica e erettile). Pur ammettendo una mancata prudenza nell’iter specialistico proposto dal Sanitario, stante le caratteristiche estremamente aggressive della particolare neoplasia, non è possibile valutare di quanto una diagnosi più precoce e tempestiva (di alcuni mesi: dal novembre 20 15), avrebbe potuto variare in modo sostanziale la prognosi, sia per quanto attiene la progressione della malattia che per quanto riguarda la speranza di vita”.

Con riferimento alle osservazioni critiche dei Consulenti di parti convenute, relativamente alla visita del maggio 2014, secondo cui non fosse possibile ipotizzare a tale data una neoplasia prostatica, poiché “l’indicazione ad ulteriori indagini (ripetizione del PSA e/o indagini di secondo livello), in presenza di valori recenti di PSA nei limiti è legata alla valutazione dello specialista e non è vincolata da linee guida”, i CTU hanno replicato che il quadro clinico dimostrava la presenza di una “prostata di consistenza aumentata”, “finemente granulosa” all’esplorazione rettale, in presenza di calcificazioni che ecograficamente “impediscono di distinguere il piano di clivaggio tra adenoma e prostata vera” e con un PSA non recente, ma risalente a ben otto mesi prima, di valore elevato, seppur ancora entro i limiti della norma. Tale quadro clinico, sostenuto da caratteristiche morfologiche prostatiche di non certa e diretta interpretazione, avrebbe necessitato di un’attenzione diagnostica maggiore, così come, contrariamente a quanto asserito dai CTP, è riportato chiaramente nelle Linee Guida”…..(….)….”Più suggestiva, invece è l’osservazione in cui i CTP sostengono che nel caso in oggetto “i parametri di elevato grado di malignità ed alti volumi neoplastici orientano verso la presenza dello stesso tipo di neoplasia anche nei 4 -5 mesi precedenti quando il valore del PSA era già di 30 ng/ml. Se si inseriscono questi dati nei nomogrammi prognostici validati e consigliati dalle principali società urologiche mondiali utilizzando come valore di PSA sia 30, sia 40, i risultati non cambiano di molto: la probabilità di essere una malattia extracapsulare è del 97% contro 98%…..(….)…4-5 mesi di ritardo diagnostico non hanno comportato un diverso sostanziale esito evolutivo della patologia: in altre parole, verrebbe a cessare il nesso causale tra negligente condotta del sanitario e l’exitus infausto”.

Replicano i CTU che “nello stesso lasso di tempo, un più precoce esordio terapeutico avrebbe potuto modificare l’evolutività di stadio: altrimenti opinando, si escluderebbe dogmaticamente la progressione patologica con disseminazione multipla metastatica……(..)..in conclusione si conferma che sussiste una condotta colposa a carico dello Specialista e sussiste nesso causale tra tale condotta e perdita di chances di sopravvivenza del paziente”.

Sulla scorta di tale accertamento, il Tribunale considera applicabili i principi secondo cui “in tema di lesione del diritto alla salute da responsabilità sanitaria, la perdita di chance a carattere non patrimoniale consiste nella privazione della possibilità di un miglior risultato sperato, incerto ed eventuale (la maggiore durata della vita o la sopportazione di minori sofferenze) conseguente – secondo gli ordinari criteri di derivazione eziologica – alla condotta colposa del sanitario ed integra evento di danno risarcibile (da liquidare in via equitativa), soltanto ove la perduta possibilità sia apprezzabile, seria e consistente”.

La Suprema Corte, in particolare, ha rimarcato che “la condotta colpevole del sanitario ha avuto, come conseguenza, un evento di danno incerto: le conclusioni della CTU risultano cioè espresse in termini di insanabile incertezza rispetto all’eventualità di maggior durata della vita e di minori sofferenze, ritenute soltanto possibili alla luce delle conoscenze scientifiche e delle metodologie di cura nel tempo. Tale possibilità – i.e. tale incertezza eventistica, (la sola che consenta di discorrere legittimamente di chance perduta), – sarà risarcibile equitativamente, alla luce di tutte le circostanze del caso, come possibilità perduta – se provato il nesso causale, secondo gli ordinari criteri civilistici tra la condotta e l’evento incerto, (la possibilità perduta) ….ove risultino comprovate conseguenze pregiudizievoli che presentino la necessaria dimensione di apprezzabilità, serietà, consistenza”.

Ebbene, applicando tali principi, il danno risarcibile viene individuato nella perdita della possibilità di accedere ad un risultato favorevole incerto, considerato tale in virtù della possibilità in ordine allo sviluppo della malattia, nel caso di cure tempestive, idonee e diligenti.

In altri termini, si tratta di risarcire una concreta perdita di chance di sopravvivenza, o, quanto meno di condurre anni di vita ulteriori con una qualità apprezzabile.

Per la monetizzazione del pregiudizio il Tribunale utilizza le Tabelle milanesi, relativamente al danno jure successionis, a fronte di un danno biologico terminale liquidabile (con la personalizzazione al 10%) in euro 88.557,40, viene riconosciuto agli eredi un importo pari alla metà, in ragione della “incertezza eventistica” in ordine ad un positivo sviluppo della patologia che affliggeva il paziente.

Invece, riguardo il danno jure proprio, viene riconosciuto in misura di poco superiore ai minimi previsti dalle Tabelle per la moglie e per i figli, ovverosia euro 185.556,00 per ciascuno, decurtato al 50%, stante la sola probabilità di un esito differente della malattia.

Si addiviene all’importo di euro 91.278,00 per ciascuno degli attori.

In definitiva, i convenuti, in solido tra loro, devono rispondere del pagamento della somma complessiva capitale di euro 318.112,70 -da ripartirsi in misura paritaria tra i tre eredi -, oltre accessori.

Le spese di lite e di CTU Medico-Legale seguono la regola della soccombenza.

In conclusione, il Tribunale di Aosta condanna il Medico e la Azienda Regionale USL della Val d’Aosta al risarcimento dei danni complessivi subiti dagli attori, liquidati in euro 91.278,00 per ciascuno, oltre interessi e rivalutazione; condanna i medesimi convenuti alla rifusione delle spese processuali sostenute dagli attori, liquidate in complessivi euro 15.000,00, oltre accessori; pone a carico dei convenuti le spese di CTU Medico-Legale.

Avv. Emanuela Foligno

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